L’analisi di innumerevoli casi, nel corso degli ultimi due anni segnati dalla pandemia da Covid 19, ha dimostrato che il virus non si trasmette dalle madri positive ai neonati.
I bambini hanno, dunque, delle difese immunitarie che li proteggono dal contagio. Ma quale meccanismo si innesca perché tali difese si attivino?
La risposta a questo interrogativo potrebbe essere emersa da una recentissima ricerca dell’Ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma, condotta in collaborazione con il Politecnico Umberto I, i cui risultati, pubblicati sulla rivista scientifica JAMA Network Open, evidenziano il ruolo cruciale del latte materno nella formazione delle difese immunitarie dei bambini contro il Covid.
Lo studio ha esaminato 28 neomamme, non vaccinate e positive al Coronavirus, nel periodo in cui si avvicinavano al parto, e i loro bambini nati tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021.
Attraverso la placenta, le madri trasferiscono ai neonati i propri anticorpi di tipo IgG (le cosiddette immunoglobuline), sviluppatisi a seguito di proprie infezioni o precedenti vaccinazioni.
Tramite il latte materno, la madre trasferisce anche gli anticorpi IgA, noti anche come mucosali (perché si formano nelle mucose materne) e proteggono il neonato da raffreddore e influenza.
La ricerca del Bambin Gesù si è basata sull’esame della presenza di anticorpi IgG e IgA contro il Covid19 nel sangue e nel latte delle madri e nel sangue e nella saliva dei loro bambini. Gli esami sono iniziati a solo due giorni da parto e sono continuati per due mesi.
Si è scoperto che le immunoglobuline, a due giorni dal parto, erano presenti nel latte materno, ma non nel sangue delle madri, a riprova del fatto che la reazione delle mucose è immediata e veloce a differenza della risposta sistemica del corpo umano.
Nel sangue dei neonati gli anticorpi contro il SARS COV 2 non sono stati rilevati né nei due giorni successivi al parto, né dopo i due mesi. Essendone, infatti, priva al momento del parto, la madre non poteva trasmetterle al bambino tramite la placenta.
Sorprendentemente, nella saliva dei neonati, invece, gli anticorpi contro il covid sono stati rilevati sia dopo 48 ore, sia dopo due mesi dal parto.
La dottoressa Rita Carsetti, responsabile di Diagnostica di Immunologia al Bambino Gesù, spiega che le immunoglobuline delle madri infettate, combinate con la proteina “Spike” del virus, costituiscono un “immuno-complesso”, una particolare molecola che si trasferisce ai bambini con il latte materno stimolando la produzione di anticorpi contro il covid.
È come se il latte materno avesse svolto nei confronti dei bambini appena nati la funzione di un vaccino naturale, aiutandoli a produrre in modo autonomo le proprie difese immunitarie, oltre che a proteggerli passivamente dal contagio.
Ancora prima di rimanere incinta, le donne hanno spesso il terrore delle smagliature provocate dalla gravidanza e dal parto di cui sono quasi diventate sinonimo, al pari delle fastidiose nausee mattutine.
Il timore è, purtroppo, giustificato: il 90% delle donne in attesa presenta, infatti, smagliature, più o meno evidenti, entro il terzo trimestre di gestazione, solitamente intorno all’ombelico, sui glutei, sul seno e sulle cosce.
Le smagliature della gravidanza, scientificamente denominate striae gravidarum, sono fondamentalmente un tipo di cicatrici: striature frastagliate della pelle che assumono intensità e colorazioni differenti (rosa, rossi, nero, blu o viola) a secondo della parte del corpo in cui si formano e della loro età.
Appena comparse, le smagliature sembrano quasi in rilievo. Con il passare del tempo, al tatto, diventano assolutamente impercettibili. Le smagliature si producono quando la pelle subisce allungamenti repentini che lacerano gli elementi di sostegno degli strati superficiali dell’epidermide, formando, appunto, una cicatrice.
Una ricerca risalente al 2013 ha ipotizzato una inclinazione genetica alla formazione delle smagliature che, quindi, potrebbero essere addirittura ereditarie, tramandandosi, sfortunatamente, di madre in figlia. Anche l’uso di cortisone, ormone che rende la pelle meno elastica e la cui produzione avviene nelle ghiandole surrenali, potrebbe favorire l’insorgere delle smagliature.
La ricerca suggerisce che durante la gravidanza è più probabile che si formino smagliature nelle donne giovani e in quelle in cui si registra un aumento di peso più rapido della media. Alcune smagliature, purtroppo, sono permanenti, altre svaniscono naturalmente dopo la nascita del bambino. Esistono, comunque, trattamenti che, se iniziati precocemente, riescono a renderle meno evidenti.
Sulle smagliature si può intervenire con moderne tecniche i cui risultati sono molto soggettivi:
Peeling chimici: sono tecniche di esfoliazione della pelle con sostanze chimiche come l’acido glicolico.
Laserterapia: trattamento che riduce la gravità delle smagliature avvalendosi del laser.
Microdermoabrasione: esfoliazione con sostanze leggermente abrasive tipo i cristalli di corindone.
Microneedling o micro perforazione con aghi sottilissimi.
Radiofrequenza: tecnica che agisce riscaldando gli strati meno superficiali dell’epidermide per attivare la produzione di collagene.
Un cenno doveroso merita l’applicazione sulle smagliature di creme (con acido ialuronico, burro di cacao, vitamina E, olio di oliva e mandorle): pur non esistendo concrete evidenze scientifiche che ne provino l’efficacia, avendo proprietà emollienti, usarle non peggiorerà certamente la condizione delle smagliature. Anzi, migliorando il tono generale della pelle possono concorrere a renderle meno visibili.
Durante la gravidanza, si verifica un aumento naturale dei tassi di colesterolo nel sangue delle madri. Il colesterolo è, infatti, indispensabile allo sviluppo cerebrale del feto e, inoltre, riveste un ruolo fondamentale nella produzione degli ormoni steroidei, estrogeni e progesterone, che svolgono un ruolo chiave per il buon esito della gestazione.
I livelli di colesterolo cominciano a aumentare nel secondo trimestre di gravidanza, raggiungono un picco durante il terzo e in genere tornano alla normalità circa quattro settimane dopo il parto.
Nella maggior parte dei casi, il colesterolo alto nelle donne in gravidanza non viene trattato, a meno che non vi siano elevate probabilità di rischio cardiovascolare. Il colesterolo alto durante la gravidanza può aggravare l’ipertensione indotta dalla gravidanza stessa, minacciando la vita sia della madre che del bambino. Anche il colesterolo basso può avere conseguenze negative (travaglio anticipato, bambino sottopeso al momento del parto).
L’uso delle statine, prescritte in condizioni normali per abbassare i livelli di colesterolo, è sconsigliato in gravidanza. Per tenere sotto controllo il colesterolo durante la gravidanza è necessario ricorrere a metodi naturali: seguire una dieta equilibrata con frutta, verdura e fibre; evitare i grassi saturi; fare esercizio fisico.
Uno studio pubblicato di recente sull’European Journal of Preventive Cardiology ha individuato una correlazione diretta tra il colesterolo alto delle madri in gravidanza e possibili patologie cardiache dei figli. La ricerca, guidata dal professor Cacciatore dell’Università di Napoli Federico II, ha, però, una portata limitata per la scarsità dei dati a disposizione.
Il colesterolo, infatti, non viene monitorato costantemente nella routine di controlli a cui vengono sottoposte le donne incinte. Di conseguenza mancano informazioni relative alla correlazione con la salute dei figli.
Se confermata, l’ipotesi suggerita dalla ricerca del prof. Cacciatore, potrebbe avere implicazioni importanti a livello preventivo. L’aumento del colesterolo costituirebbe un pericoloso campanello d’allarme da tenere sotto controllo per impedire conseguenze sulla salute cardiaca dei figli. Inoltre, indurrebbe a tenere alta l’attenzione sui bambini pianificando regimi dietetici e attività fisiche atte a ridurre i rischi cardiaci.
Dei 310 pazienti che sono stati esaminati in un arco temporale di trent’anni (tra il 1991 e il 2019) 89 erano reduci da infarto. Di questi, oltre l’ottanta per cento erano uomini con un’età media di 47 anni. I pazienti sono stati classificati in base alla gravità dell’infarto.
Sono stati esaminati i dati sul livello di colesterolo delle madri di tutti i pazienti durante la gestazione. Al netto della considerazione degli altri fattori di rischio (condizioni anagrafiche, eccesso di peso, abitudini scorrette, pressione alta, precedenti familiari, diabete, patologie cardiache in atto o pregresse), il livello alto di colesterolo delle madri è risultato proporzionalmente collegato alla gravità dell’infarto.
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