Intrattenere un neonato giocando

Intrattenere un neonato giocando

Gioco e neonato sembrano due concetti antitetici perché siamo convinti che il bimbo sia troppo piccolo per sperimentare un’attività ludica finalizzata all’apprendimento.

In realtà le cose non stanno così: la mente e il corpo del bambino si stanno sviluppando velocemente e in modo sorprendente. Durante il primo mese di vita il piccolo apprende e impara grazie all’interazione con i genitori. Ma come si fa a giocare con un neonato?

Durante il primo mese di vita, la pancia di mamma e papà è più interessante e stimolante di un parco giochi. Gli esperti consigliano infatti di mettere il bambino sulla pancia, quando è sveglio, più volte al giorno. Il focus di questa coccola-esercizio è aiutarlo a sviluppare le prime capacità motorie che coinvolgono anche la testa.

E se il bimbo non ama questa posizione? L’alternativa è sdraiarlo accanto a voi su un pavimento, incoraggiandolo a sollevare la testa con l’ausilio di un asciugamano morbido da mettere sotto il suo corpo per agevolarne i movimenti.

Il bambino alla nascita è dotato di alcuni riflessi involontari che gli garantiscono senza dubbio la sopravvivenza ma non dobbiamo sottovalutare la loro importanza in termini di interazione con il mondo esterno.

Se proviamo a toccargli una guancia appena nato, il piccolo si girerà istintivamente verso quel lato, pronto a nutrirsi: è un semplice riflesso, chiamato di radicazione. Se invece stimoliamo il piccolo con il gioco, nel giro di 3/4 settimane, inizierà a girarsi non per un semplice riflesso ma perché avrà imparato che in quella direzione trova del cibo. È una piccola conquista a metà strada tra l’orientamento temporale e la consapevolezza.

Non sottovalutiamo l’importanza del linguaggio, anche se ci può sembrare prematuro nei primi mesi di vita. In realtà i piccoli iniziano a collegare il suono della voce al volto ed è proprio quel suono che li spinge a essere più attivi e vigili. Non ha importanza quello che diciamo ma il modo.

Parliamo di qualsiasi cosa ma cerchiamo di intrattenerlo il più possibile con la nostra voce: il piccolo ascolta, collega e impara. Sotto questa ottica anche cantare diventa uno strumento indispensabile perché crea un apprendimento rapido e piacevole. Il bambino, grazie a questi piccoli gesti, impara a sua volta a comunicare.

Nei primi mesi di vita è necessario fornire al neonato una stimolazione che passa attraverso l’utilizzo di piccoli sonagli, giocattoli musicali o tramite la lettura di un libro colorato, uno strumento ideale per continuare a far sentire la nostra voce al bambino, modulando anche il tono e l’intensità.

Fonti

Learning, Play, and Your Newborn

Am I Doing Enough With My Newborn?

Bambini: educare all’amicizia

Bambini: educare all’amicizia

L’amicizia è un fatto imponderabile, indefinibile in tanti suoi aspetti, ma una cosa è certa, inizia a farsi vedere dai primi anni dell’infanzia e sa crescere a volte per tutta la vita.

Difficile dare una definizione, ma l’amicizia è un fattore che tutti conosciamo e di cui godiamo, un rapporto universale con alcune caratteristiche più o meno sempre presenti, come intensità, reciprocità e un aiuto a dirimere i problemi in modo pacifico, ma senza imposizioni.

Negli anni ’70 gli studiosi dello sviluppo tendevano a negare la capacità dei bambini di creare relazioni significative amicali, ponendo quelle con la madre come principale e dominante. Per la psicanalista Susan Isaacs i rapporti fra bambini erano solo derivanti da un approccio egoistico.

Studi recenti come quelli di Baumgartner e Bombi (2005) sembrano ribaltare la prospettiva affermando che fra i 3 e 6 anni i bambini sanno già costruire rapporti con i coetanei senza la mediazione di un adulto.

L’amicizia cambia con le fasi della vita. Dai 3 ai 5 anni l’amico è sempre momentaneo, una sorta di avversario con cui si instaura una tregua di gioco, secondo le teorie di Rubin del 1998, ma il rapporto si interrompe se mancano le condizioni sicure.

Per gli adulti l’amicizia è alla base di una formazione del carattere e del rapporto con gli altri, ma è un aspetto che si apprende da bambini, con la crescita dell’autostima e della percezione dei confini nelle relazioni.

Gli adulti possono formare il bambino all’amicizia, interagendo con lui in modo empatico e sano, aiutandolo a sviluppare bisogni e limiti e ponendosi come modello delle relazioni amicali, mostrando un buon comportamento nei rapporti di questo tipo fra adulti.

Possono anche svolgere il ruolo di facilitatori, invitando amici e candidati per appuntamenti di gioco. Inoltre possono svolgere un ruolo soft di arbitro, spingendo alla ricerca di una soluzione pacifica e con autocontrollo, ma senza dare un giudizio in ambiti che non sono di loro pertinenza.

Le amicizie sono anche il punto di partenza per creare una relazione con chi è differente, perché in assenza di preconcetti e tabù i bambini possono relazionarsi anche con compagni di strati sociali differenti, di nazionalità diverse, anche grazie ad un forte linguaggio non verbale che caratterizza giocoforza le loro prime amicizie, gettandole basi per diventare adulti stabili e capaci di interpretare i comportamenti di chi hanno davanti e di capirne bisogni esigenze e anche i limiti.

Fonti

Children’s friendships

Judy Dunn, 2006, L’amicizia tra bambini

Emma Baumgartner, Anna Silvia Bombi, 2005, Bambini insieme. Intrecci e nodi delle relazioni tra pari in età prescolare

L’amicizia tra bambini: un valore importante

Il Papà è “meno indispensabile” della Mamma?

Il Papà è “meno indispensabile” della Mamma?

Ci si chiede spesso se il lavoro delle madri incida sul benessere dei bambini in età prescolare e scolare, mentre, invece il problema non si pone per i padri. È come se si attribuisse un’importanza minore al rapporto padre-bambino. Soprattutto nel primo anno di vita, le cure paterne non sarebbero indispensabili e i padri non soffrirebbero per nulla, o in misura minore rispetto alle madri, del distacco dai figli durante le ore lavorative. La teoria dell’attaccamento, definita da Bowlby, riguarderebbe, quindi, solo il rapporto madre figlio.

Questa convinzione è talmente radicata che, ove si verifichino condizioni che la sovvertono, ad esempio una famiglia in cui la mamma lavora e il papà resta a casa a occuparsi dei figli, non esiste un termine per descrivere la situazione. Si coniano neologismi cacofonici e improbabili a riprova dell’eccezionalità della situazione (tipo mammo), come se il padre non fosse un genitore a tutti gli effetti, ma solo una figura surrogata a quella materna.

A riprova di questa concezione dei ruoli genitoriali, dal punto di vista socioeconomico, alla nascita del primo figlio, accade spesso che le madri rafforzino il loro ruolo di caregiver e gli uomini quello di breadwinner. In parole più semplici, appena nasce il bambino, le donne che lavorano riducono il loro orario lavorativo per occuparsi del piccolo e i padri, se possibile, lavorano di più per sostenere la famiglia che è aumentata.

Nelle coppie giovani, si assiste a una mini rivoluzione sociale. Cresce, infatti, il tempo che i padri dedicano alla gestione materiale della casa e alla cura dei figli. L’inversione di tendenza si riferisce essenzialmente alle attività ludiche e di socializzazione, molto meno alle cure materiali tipo preparare da mangiare. Da una recente indagine risulta che in Italia solo l’11% dei padri accudisce materialmente i figli in età prescolare. Percentuale bassissima rispetto ai padri danesi (57%), finlandesi (31%) e inglesi (24%).

Collaborare paritariamente alla cura dei figli, contribuisce a creare e a rafforzare l’attaccamento con il padre che non deve essere percepito dal bambino come un occasionale baby sitter. È questo il risultato a cui si deve tendere, sradicando le consuetudini culturali che si estrinsecano socialmente in atteggiamenti negativi verso un ruolo paterno attivo.

I datori di lavoro, per esempio, non vedono di buon occhio i congedi parentali dei padri, sebbene siano previsti dalla legge 53/2000 e pur ricoprendo solo il 10% dei permessi richiesti.

Gli studi comportamentali degli ultimi decenni dimostrano che il coinvolgimento paterno nella cura fisica dei figli favorisce dal punto di vista sociale il sovvertimento di retaggi culturali obsoleti in cui il ruolo delle donne è relegato essenzialmente alla cura della casa e della famiglia.

La presenza attiva dei padri nella gestione familiare ha quindi un’importanza fondamentale per fare sì che i figli crescano senza pregiudizi di genere.

Fonte

Paternità e maternità. Non solo disuguaglianze di genere

I bambini e il lutto. Come aiutarli a comprenderlo e affrontarlo.

I bambini e il lutto. Come aiutarli a comprenderlo e affrontarlo.

I bambini hanno bisogno di informazioni semplici e, soprattutto, oneste rispetto a un evento luttuoso, con tutto ciò che ne consegue, e alla morte come evento fisico. Nel caso di decesso di una persona cara o importante nella vita del bambino, è indispensabile parlarne il prima possibile. Apprendere la notizia della morte accidentalmente o da qualcuno a cui non è vicino, potrebbe provocare al bambino una reazione emotiva ancora più spiazzante e dolorosa. Se si hanno più bambini, gli esperti consigliano di valutarne età e il carattere per decidere se è meglio informarli insieme o separatamente.

Il bambino ha bisogno dell’aiuto degli adulti per capire la morte. È meglio, quindi, spiegare cosa è successo nel modo più semplice e veritiero possibile. Ad esempio, un bambino a cui viene detto che il nonno è andato a dormire per sempre potrebbe avere difficoltà ad addormentarsi per il timore inconscio di non svegliarsi più. I bambini più piccoli potrebbero non sapere affatto cosa significhi la morte, quindi il genitore potrebbe aver bisogno di descrivere il fatto in sé e assicurarsi, con delicatezza estrema, che abbiano capito.

Quando qualcuno muore, i bambini si pongono tutta una serie di quesiti ai quali, in qualche modo, l’adulto deve dare una risposta. Prepararsi in anticipo a rispondere a queste domande, può rendere le cose più facili da gestire. La domanda principale sarà sicuramente: perché? Il bambino cerca di dare un senso alla morte cercando di scoprirne la causa. La risposta deve essere chiara, facilmente comprensibile: il cuore del nonno era molto vecchio e i dottori hanno provato ad aggiustarlo, ma non ci sono riusciti.

Molto spesso il bambino, come reazione al lutto, può temere la propria morte o che muoiano i genitori o le persone che gli sono più vicine. Per tranquillizzarlo, si suggerisce di spiegargli che la maggior parte delle persone muore solo quando sono molto vecchie e molto malate.

Cosa accade dopo la morte è un’altra delle questioni sulle quali il bambino indagherà. La risposta dipende dalle convinzioni personali o spirituali della famiglia dalle quali, il genitore o chi per lui, può scegliere di partire per tratteggiare una spiegazione che sia la meno traumatica possibile.

Molte persone trovano conforto nel dare ai propri figli un appiglio su cui concentrarsi quando pensano alla persona defunta: gli dicono che il nonno è in cielo, ad esempio.

Qualunque cosa si scelga di dire al bambino, è utile solo se riesce a rasserenarlo senza confonderlo. Ha molta importanza, in questo caso, il tono rassicurante usato dall’adulto.

Un’esperienza luttuosa, di per sé dolorosa e traumatizzante anche per gli adulti, con i bambini deve essere affrontata tenendo conto delle implicazioni psicologiche sulla vita del piccolo che, per via della perdita, subisce uno scossone i cui riverberi vanno contenuti e affievoliti con l’aiuto in primo luogo dei genitori.

Fonti:

Aiutare i bambini ad affrontare il lutto

Come preparare i bambini all’elaborazione di un lutto

Lo sviluppo del linguaggio: la fase della lallazione

Lo sviluppo del linguaggio: la fase della lallazione

Si chiama lallazione ed è un vero e proprio training motorio che permette al bambino di allenarsi nella produzione dei suoni tipici che precedono la comparsa del linguaggio.

Conosciuta anche come bubbling, questa fase segna il suo esordio intorno ai 5 o 6 mesi di vita. Il piccolo inizia a emettere dei piccoli suoni che di per sé non hanno alcun significato pratico. Da un punto di vista strettamente emotivo invece la lallazione produce piacere nel bambino che ama ascoltarsi e ripetere quanto più possibile una serie di semplici sillabe.

Nonostante il bubbling sia un allenamento che precede lo sviluppo della parola e del linguaggio, non dobbiamo sottovalutarne la potenza espressiva. Con il tempo il bambino infatti impara a modulare tono, ritmo e frequenza dei suoni emessi, riuscendo così a comunicare ai genitori le sensazioni che prova: rabbia, gioia, fastidio.

La lallazione è caratterizzata da due stadi. Il primo è quello del bubbling canonico. Il piccolo inizia a produrre un suono composto da sillabe identiche tra loro: ma-ma-ma, ad esempio, oppure pa-pa-pa. La sequenza è sempre la stessa (consonante e vocale) e viene ripetuta numerose volte.

Sembrano parole di senso compiuto, come mamma e papà: in realtà il bimbo sta semplice iniziando a produrre suoni elementari. Verso i 10 mesi il piccolo modifica le sillabe e ne produce di più complesse.

Questa fase, chiamata lallazione variata, rappresenta lo stadio delle proto-parole: la struttura è più complessa, lunga, articolata e quasi intenzionale. Le sillabe assumono una forma diversa (ma-pa-ma-na ad esempio) e un preciso significato in base al contesto in cui vengono utilizzate.

Lo stadio successivo è quello del linguaggio e delle prime parole che saranno chiare e di buona qualità se la lallazione avrà attraversato una serie di step ben precisi: l’esordio intorno ai 5/6 mesi e il passaggio da uno stadio all’altro.

A questo va aggiunto anche un altro punto fondamentale: il bubbling deve essere frequente e rumoroso. Il bimbo si esercita spesso nella produzione delle piccole sillabe e lo fa in momenti quali il cambio del pannolino o durante il bagnetto. La lallazione non è assolutamente codificata e uguale in tutti i bambini in quanto dipende dalla singola maturità funzionale ma anche dal contesto linguistico nel quale vive il piccolo.

Non deve allarmare inoltre un improvviso blocco nell’emissione di questi suoni. Una regressione è del tutto normale e spesso preannuncia l’arrivo delle prime parole. Cosa fare se il bimbo non lalla? Non bisogna spaventarsi ma semplicemente iniziare a stimolare il piccolo con giochi e piccole conversazioni.

Fonti:

S. Bruner, “Il linguaggio del bambino. Come il bambino impara a usare il linguaggio”.

M. Tomasello, “Le origini della comunicazione umana”

Lo sviluppo comunicativo e linguistico del bambino

“Solo” una sculacciata? Perché non serve ed è dannosa

“Solo” una sculacciata? Perché non serve ed è dannosa

I genitori di una volta erano convinti che attraverso le sculacciate fosse possibile educare i propri figli, insegnando loro che quel dato comportamento era errato. Non serve andare indietro di generazioni: quanti di noi ricorderanno di aver ricevuto qualche ceffone o pacca sul sedere, sentendosi dire frasi del tipo “lo faccio per il tuo bene”.

Ancora oggi è diffusa l’idea secondo cui le punizioni corporali, anche una semplice sculacciata ogni tanto, non solo non faccia male ma sarebbe addirittura educativa.

La ricerca si è interrogata a lungo circa la funzionalità educativa della sculacciata, ed è giunta a una conclusione: sculacciare non solo non offre un insegnamento, ma può creare danni seri a carico del cervello del bambino. Ciò avviene perché la sostanza grigia del cervello controlla sia la parte relativa al linguaggio e al ragionamento, sia quella relativa al controllo muscolare.

Questo metodo educativo, oltre a creare danni seri, suscita nel bambino un comportamento aggressivo, che può condizionare anche il suo rendimento scolastico.

Gli studiosi, inoltre, hanno osservato che i bambini che vengono sottoposti a punizioni corporali tendono ad avere una visione distorta del mondo: essi, infatti, si convincono che tutta la realtà che li circonda sia cattiva e ostile e di conseguenza attuano un comportamento di autodifesa, che li porta a essere maldisposti e aggressivi.

Questa teoria è stata illustrata da alcuni psicologi americani (Elizabeth T. Gershoff, Jerome M. Sattler e Daniel Ansari), i quali in una pubblicazione del 2018 hanno dichiarato che su dodicimila bambini quelli che a cinque anni hanno subito punizioni corporali, negli anni successivi (in particolare tra i sei e gli otto anni) hanno sviluppato comportamenti aggressivi.

Questo meccanismo nasce perché il bambino, vedendo l’adulto utilizzare questi modi nei momenti di rabbia, si convince che l’unico modo possibile per esprimere i propri sentimenti (in particolar modo, quelli negativi) sia alzare le mani.

Durante la crescita, i bambini vengono influenzati notevolmente dai comportamenti delle persone che li circondano e, data la loro tenera età, non sono in grado di comprendere che utilizzare le botte come metodo educativo sia errato e controproducente.

Nel momento in cui i bambini sono costretti a subire questo tipo di educazione, oltre a sentire dolore fisico, vengono pervasi da un senso di paura che non consentirà loro di comprendere i motivi di quel gesto, ossia della sculacciata; questo dimostra quanto, oltre a essere sbagliato, sia inutile sculacciare i propri figli.

Nella maggior parte dei casi, i genitori che scelgono di seguire un metodo educativo basato sulle sculacciate hanno avuto a loro volta un’educazione basata sulle punizioni corporali e, non ammettendo questo collegamento, daranno vita a un circolo vizioso dannoso non solo per i propri figli, ma anche per le future generazioni.

Fonti:

D’Ambrosio, Psicologia delle punizioni fisiche. I danni delle relazioni educative aggressive, Milano 2004

Miller, Il risveglio di Eva: come superare la cecità emotiva, ed. Cortina, Milano 2002

Dott. Carmen Guarino: Perché non si picchiano i bambibni?

Dott. Maria Teresa Caputo: Sculacciare i bambini non è educativo

Bambini: no schermi fino ai 2 anni

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, i neonati e i bambini non dovrebbero passare del tempo davanti agli schermi di tablet, pc o smartphone. Le raccomandazioni fanno parte di linee guida più ampie sull’attività fisica, il sonno e il comportamento sedentario che incoraggiano una maggiore attività fisica a partire dalla prima infanzia.

Per prevenire patologie future, in primis l’obesità infantile (e tutte le eventuali patologie connesse), e assicurare ai futuri adolescenti e adulti, un livello soddisfacente di benessere psico-fisico, è indispensabile diminuire la sedentarietà, incoraggiare l’attività fisica e assicurare una buona qualità del sonno nei bambini sin da piccolissimi.

I dati sulla sedentarietà degli adolescenti (80%) e degli adulti (23%) e sulle gravi conseguenze che ne derivano (oltre 5 milioni di decessi all’anno nel mondo per malattie collegate) sono illuminanti sulla necessità di abituarsi a uno stile di vita corretto a partire già dai primi due anni di vita.

Fondamentale, quindi, impegnare i bambini con giochi attivi, assicurandosi, al contempo, che il loro sonno sia sufficiente e di buona qualità.

Da uno studio, che ha interessato più di 500 bambini, pubblicato sulla rivista The Lancet Child and Adolescent Health nel gennaio del 2020 si evince che i bambini di età compresa tra i due e i tre anni che trascorrono più di tre ore al giorno davanti a qualsiasi tipo di schermo (tablet, pc, TV), all’età di 5 anni sono fisicamente meno attivi rispetto ai coetanei che, invece, utilizzano lo schermo per un’ora o meno ogni giorno.

rofessore Associato… [SEGUE]

Si risveglia la notte? È naturale.

Il sonno è uno stadio degli esseri viventi in cui molte attività metaboliche vengono rallentate e si sospende, almeno in parte, lo stato di coscienza.

Ancora più in un neonato, questa fase è fondamentale tanto che le ore trascorse a dormire da un bimbo appena nato sono predominanti nell’arco della sua giornata. È proprio per questo motivo che un sonno non corretto può essere un importante campanello di allarme.

Il sonno degli esseri umani viene regolato, a livello del sistema nervoso, da due sottosistemi: uno che si occupa del sonno vero e proprio e uno, invece, preposto al risveglio.
Nel neonato e nel bambino, però, l’intero sistema nervoso è completamente differente da quello dell’adulto, infatti alla nascita è ancora in parte immaturo. Solo arrivati al ventunesimo anno di età si raggiunge il suo sviluppo definitivo.

È proprio per questo stadio ancora immaturo del suo sistema nervoso, che il neonato ha delle capacità limitate, ma è anche per questo stesso motivo che un bimbo ha un’elevata velocità di apprendimento.

Anche nel neonato, comunque, il sonno non è assolutamente una semplice fase di riposo perché in questo stadio si completano delle attività fondamentali iniziate durante la veglia, come per esempio la fissazione della memoria.

I neonati e i bambini fino ai due anni di età… [SEGUE]

È geloso del fratellino. È gelosa della sorellina.

L’arrivo di un neonato in casa porterà grandi novità nella vita di tutti, ma a dover gestire il cambiamento maggiore, sarà sicuramente il fratello/la sorella maggiore.

Ritrovarsi a dividere le attenzioni del genitore, avere un nuovo bambino in casa che tenderà ad attirare, almeno per i primi i tempi, tutta l’attenzione su di sé, potrà apparire al primogenito come un grande sconvolgimento difficile da comprendere e accettare.

Gelosie, dispetti, irritabilità sono normalissimi soprattutto nel primo periodo ma sicuramente sono molto difficili da gestire per i genitori che spesso non sanno come comportarsi per rendere questo periodo di transizione il più sereno possibile per la propria famiglia.

Per aiutare il proprio bambino ad accettare nel modo migliore l’arrivo di un fratellino o di una sorellina possono essere utilizzati piccoli accorgimenti.

Innanzitutto sarà utile coinvolgere il bambino nella cura del nuovo arrivato, farlo sentire parte della nuova avventura e dargli qualche piccola responsabilità.

Nonostante il neonato richieda sicuramente costanti e importanti attenzioni, è importante mettere al primo posto qualche volta il fratello maggiore facendolo sentire sempre importante e focalizzando solo su di lui l’attenzione quando necessario.

Sarà importante anche provare… [SEGUE]

La paura degli estranei nei neonati

Vedere il proprio figlio piangere per motivi apparentemente non validi, come il semplice avvicinarsi di una persona non familiare, può destare preoccupazione nei genitori, oltre che essere fonte di imbarazzo.

Uno dei fenomeni più frequenti che coinvolge la maggior parte dei neonati è proprio la paura degli estranei, nota come “crisi dell’ottavo mese”. Il bambino, specie quando si trova nei primi di mesi di vita, reagisce a questo stimolo esterno utilizzando il pianto. Si tratta di una fase transitoria, che accompagna il neonato dagli otto mesi in poi, e che va poi a esaurirsi entro il secondo anno d’età.

Perché i neonati hanno paura degli estranei? Questa reazione viene stimolata nel momento in cui i bambini si rendono conto che davanti a sé non hanno più il genitore, bensì una persona sconosciuta, che non fa parte del proprio “nido”.

Si tratta di uno stato d’animo che rimarca a tutti gli effetti un rifiuto da parte del neonato delle persone che ha davanti, anche se si tratta dei nonni.

Molti genitori sono convinti che questa fase non sia funzionale nella crescita dei propri bambini, in verità è un chiaro segnale che indica i progressi compiuti dai bambini stessi: solitamente i neonati cominciano a distinguere i genitori dalle altre persone intorno all’ottavo mese, e nel momento in cui trovano davanti a sé un estraneo percepiscono un senso d’ansia, perché hanno coscienza del distacco avvenuto tra loro e i/il genitori/e.

Questa fase, seppur transitoria, può… [SEGUE]

Capricci, crisi isteriche e pianto: vademecum per neo genitori

Quando si è da poco tempo genitori, assistere per le prime volte a delle crisi di pianto del proprio bambino può essere piuttosto destabilizzante, perché non si capiscono questi comportamenti così violenti e non si sa come risolverli.

Sebbene spiacevoli ed inaspettate, queste forti manifestazioni di rabbia non sono insolite o strane, ma anzi piuttosto usuali, soprattutto in alcune fasce di età.

I capricci, così sono chiamate di solito le crisi isteriche che colpiscono i bambini, coinvolgono solitamente quelli in età prescolare e possono iniziare addirittura intorno all’anno e mezzo di età.

Per i genitori, è importante sapere che questi scatti d’ira veri e propri non dipendono da una cattiva educazione o da motivazioni similari, per cui non hanno motivo di incolparsi.

Una crisi di rabbia in un bambino può scaturire da differenti sensazioni che questo prova, e talvolta è molto difficile comprendere le motivazioni. Tali momenti possono durare da una decina di minuti fino ad oltre mezz’ora e di solito comprendono urla, pianti isterici, il lancio di oggetti o giocattoli, botte a persone ed elementi fisici, e talvolta anche la violenza fisica agli altri.

Sebbene si creda, spesso erroneamente, che…. [SEGUE]

Educare alla felicità coltivando l’intelligenza emotiva

L’educazione emotiva è un argomento molto dibattuto negli ultimi anni, quando si parla non solo di adolescenti, ma piuttosto di bambini piccoli e neonati. Sembra, infatti, ci fosse un aspetto dell’educazione infantile che spesso veniva ignorato e non coltivato, che riguardava appunto le emozioni, ma che finalmente è stato approfondito dagli esperti di pedagogia e che può essere applicato anche dai genitori.

Si parla proprio di analfabetismo emotivo, che negli anni ha colpito giovani e giovanissimi, a causa di mancanze educative nella tenera età. Infatti, come troviamo l’analfabetismo tradizionalmente conosciuto, che deriva dal mancato apprendimento della lingua parlata e scritta, quello emotivo coinvolge il non saper gestire le proprie emozioni, un comportamento che va insegnato e quindi appreso sin da neonati.

Appena nati i bambini non comprendono da soli le loro emozioni, come il pianto o la sofferenza, poiché non capiscono le motivazioni che si celano dietro a queste reazioni. Quindi è molto importante che i genitori si impegnino, senza particolari sforzi, a tentare di spiegare al bambino, sin da quando è molto piccolo, cosa causa le emozioni provate, come ad esempio il fastidio derivante dal pannolino bagnato o dallo spuntare dei primi denti. In questo modo, semplice e che non necessita di competenze particolari da parte dei genitori, il bambino crescerà con la consapevolezza delle proprie emozioni, che quindi saranno anche più semplici da metabolizzare ed affrontare.

Le emozioni sono innate nell’uomo, per cui sussistono sin dalla nascita, e anzi, persino nei momenti prima, durante i quali i bambini sono ancora nella pancia della mamma. Proprio per questo motivo, non esiste un’età giusta per educare i propri bambini alle emozioni, perché l’intelligenza emotiva può essere sviluppata fino da quando il bambino non è ancora nato, per poi continuare ovviamente nei primi giorni di vita.


Una fase fondamentale è poi quando il bambino inizia ad avere due anni, ossia nel momento in cui comincia a comprendere le parole e le spiegazioni dei genitori, ma anche a contrapporsi a questi ultimi.
L’educazione emotiva è poi importante che sia portata avanti di pari passo sia in casa, per cui da genitori e nonni, ma anche nel contesto scolastico da maestri ed insegnanti.

Crescendo poi, ovviamente, le emozioni provate… [SEGUE]

Diamo ai bambini una base sicura

L’attaccamento è il legame profondo, emotivo e a lungo termine che si forma tra due persone. Secondo il medico e psicologo inglese John Bowlby, i comportamenti di attaccamento dei bambini nei confronti degli adulti che si occupano di loro devono essere considerati, nel contesto evolutivo umano, come un comportamento adattivo dei neonati.
In parole semplici, secondo Bowlby i neonati si legano a chi se ne prende cura (non solo ai genitori) per assicurarsi la sopravvivenza.

Negli anni ’30, lavorando con minori provenienti da esperienze socialmente problematiche, John Bowlby si rese conto che questi bambini non riuscivano a relazionarsi agli altri, nè agli altri bambini, nè agli adulti.
Esaminando le loro storie familiari, si accorse che molti di loro avevano subito gravi distacchi e dolorose perdite in tenera età.

Dall’analisi delle condizioni emotive dei bambini cresciuti in situazioni di abbandono, Bowlby concluse che il legame affettivo che si instaura con i genitori sia indispensabile per la crescita emotiva del bambino. Di conseguenza, le interferenze a quel legame potrebbero avere effetti nocivi e duraturi sulla crescita psicologica.
Il risultato del suo lavoro fu la teoria dell’attaccamento, diventata fondamentale nella psicologia infantile.

A quel tempo, si credeva che i bambini si attaccassero a chi li nutriva, intentendo l’attaccamento come un “comportamento appreso”. Bowlby ipotizzò una chiave di lettura diversa sostenendo che i neonati sono sopravvissuti per gran parte della storia umana assicurandosi di rimanere nelle immediate vicinanze e, quindi, sotto la protezione degli adulti.

Tutti i comportamenti dei bambini, che siano gesti o versi sonori, si configurano, secondo Bowlby, come comportamenti adattivi, il cui scopo è la conquista di una base sicura, materialmente e affettivamente, in cui crescere tranquillamente.

Bowlby, a riprova della sua teoria, ha evidenziato nei suoi studi che… [SEGUE]

Educare alla libertà con il metodo Montessori

Maria Montessori(1870-1952), neuropsichiatra infantile, pedagogista ed educatrice. Un’intellettuale, attiva nel sostegno all’infanzia ed ideatrice del celebre metodo che porta il suo nome, diffuso in tutto il Mondo, che credeva fermamente nella libertà dei bambini, i quali dovrebbero essere sempre spontanei e manifestare la loro vera anima senza interferenze da parte degli adulti.

Il Metodo Montessori si basa proprio sul principio della libertà, che va favorita nei bambini. Lasciando i bambini liberi di agire e apprendere in modo spontaneo, infatti, questi riescono a tirare fuori le loro emozioni e il loro modo di essere in modo naturale e senza essere in alcun modo costretti o influenzati da genitori ed educatori.

Questi ultimi, secondo il metodo Montessori, hanno il solo compito di favorire la libertà dei bambini e la loro spontaneità, ricreando un ambiente circostante familiare, nel momento in cui questi stanno apprendendo, e anche utilizzando strumenti appositamente pensati dalla stessa Maria Montessori.

I materiali didattici utilizzati sono studiati per facilitare l’apprendimento dei bambini con un’educazione sia sensoriale che motoria. Tali materiali, nonché le attività che la Montessori aveva studiato per facilitare l’apprendimento dei bambini, cambiano in base all’età di questi, per cui è possibile trovare programmi pensati per bambini 0-3 anni, 3-6 anni, 6-12 anni e 12-18 anni.

Grazie al metodo Montessori, ogni bambino può apprendere in un ambiente pensato appositamente per lui e per soddisfare le sue esigenze. In questo modo si sentirà a proprio agio e manifesterà in modo spontaneo le proprie emozioni e sensazioni. Ciò permette loro di esprimere al meglio il potenziale nascosto e tutte le caratteristiche che li rendono unici e differenti dagli altri.

Ogni bambino, infatti, ha un modo di apprendere personale ed unico… [segue]

Lo sviluppo emotivo dei bambini

A partire dalla nascita, i bambini imparano chi sono da come vengono trattati dagli adulti, a partire dai genitori. Le interazioni quotidiane e le relazioni affettive modellano l’autostima del bambino e lo aiutano a crescere. I bambini piccoli sono particolarmente sensibili alla stimolazione sociale ed emotiva: sperimentano, esprimono e percepiscono le emozioni prima di comprenderle appieno.

Vediamo quali sono le varie tappe dello sviluppo emotivo dei bambini, ricordandoci sempre che si tratta di riferimenti generali e che ogni bambino è diverso dagli altri e presenta notevoli peculiarità personali.


Il primo sorriso del neonato a cui può attribuirsi un vero e proprio significato sociale si ha già intorno a 2-3 mesi di età e la prima risata spontanea intorno ai 4 mesi. Tra i 2 ei 6 mesi, i bambini iniziano ad esprimere sentimenti come rabbia, tristezza, sorpresa e paura. Tra i 4 ei 6 mesi, distinguono i sentimenti e le espressioni emotive degli altri e, a partire dai 6 mesi, imitano il comportamento emotivo dei grandi.


Intorno all’età di 8-10 mesi, i bambini cominciano a provare l’ansia da separazione quando vengono separati dai loro genitori, dai nonni o da chi se ne prende cura in modo continuativo. L’intensità di quest’ansia varia da individuo a individuo e si basa sul temperamento e sull’ambiente del bambino. È durante questo periodo, intorno ai 9 mesi, che i bambini si accigliano per la prima volta per mostrare dispiacere o tristezza.


All’età di nove mesi, i bambini hanno imparato a esprimere un’ampia varietà di emozioni. Questo diventa subito evidente tra i 9 ei 10 mesi, poiché i bambini diventano molto emotivi: passano rapidamente da un’intensa felicità a un’intensa tristezza o frustrazione o rabbia.
Questa labilità emotiva si attenua quando i bambini sviluppano strategie rudimentali per regolare le proprie emozioni intorno agli 11 mesi di età.


Intorno all’età di 12 mesi, i bambini diventano consapevoli non solo delle espressioni delle altre persone, ma anche dei loro stati emotivi reali, in particolare di angoscia. Tra i 13 ei 18 mesi, l’ansia da separazione comincia a diminuire.

I bambini piccoli di solito entrano in un altro periodo emotivamente difficile tra i… [SEGUE]