Ci si chiede spesso se il lavoro delle madri incida sul benessere dei bambini in età prescolare e scolare, mentre, invece il problema non si pone per i padri. È come se si attribuisse un’importanza minore al rapporto padre-bambino. Soprattutto nel primo anno di vita, le cure paterne non sarebbero indispensabili e i padri non soffrirebbero per nulla, o in misura minore rispetto alle madri, del distacco dai figli durante le ore lavorative. La teoria dell’attaccamento, definita da Bowlby, riguarderebbe, quindi, solo il rapporto madre figlio.
Questa convinzione è talmente radicata che, ove si verifichino condizioni che la sovvertono, ad esempio una famiglia in cui la mamma lavora e il papà resta a casa a occuparsi dei figli, non esiste un termine per descrivere la situazione. Si coniano neologismi cacofonici e improbabili a riprova dell’eccezionalità della situazione (tipo mammo), come se il padre non fosse un genitore a tutti gli effetti, ma solo una figura surrogata a quella materna.
A riprova di questa concezione dei ruoli genitoriali, dal punto di vista socioeconomico, alla nascita del primo figlio, accade spesso che le madri rafforzino il loro ruolo di caregiver e gli uomini quello di breadwinner. In parole più semplici, appena nasce il bambino, le donne che lavorano riducono il loro orario lavorativo per occuparsi del piccolo e i padri, se possibile, lavorano di più per sostenere la famiglia che è aumentata.
Nelle coppie giovani, si assiste a una mini rivoluzione sociale. Cresce, infatti, il tempo che i padri dedicano alla gestione materiale della casa e alla cura dei figli. L’inversione di tendenza si riferisce essenzialmente alle attività ludiche e di socializzazione, molto meno alle cure materiali tipo preparare da mangiare. Da una recente indagine risulta che in Italia solo l’11% dei padri accudisce materialmente i figli in età prescolare. Percentuale bassissima rispetto ai padri danesi (57%), finlandesi (31%) e inglesi (24%).
Collaborare paritariamente alla cura dei figli, contribuisce a creare e a rafforzare l’attaccamento con il padre che non deve essere percepito dal bambino come un occasionale baby sitter. È questo il risultato a cui si deve tendere, sradicando le consuetudini culturali che si estrinsecano socialmente in atteggiamenti negativi verso un ruolo paterno attivo.
I datori di lavoro, per esempio, non vedono di buon occhio i congedi parentali dei padri, sebbene siano previsti dalla legge 53/2000 e pur ricoprendo solo il 10% dei permessi richiesti.
Gli studi comportamentali degli ultimi decenni dimostrano che il coinvolgimento paterno nella cura fisica dei figli favorisce dal punto di vista sociale il sovvertimento di retaggi culturali obsoleti in cui il ruolo delle donne è relegato essenzialmente alla cura della casa e della famiglia.
La presenza attiva dei padri nella gestione familiare ha quindi un’importanza fondamentale per fare sì che i figli crescano senza pregiudizi di genere.
Per le mamme che si destreggiano tra il lavoro, la casa e la cura dei figli, ritagliarsi del tempo per se stesse sembra spesso una missione impossibile. In realtà esiste un modo per rendere tutto più semplice da gestire: il decluttering, termine inglese che in italiano si traduce letteralmente come togliere di mezzo qualcosa d’ingombrante e che si può riassumere con la locuzione nostrana mettere in ordine.
Il decluttering facilita la vita delle mamme in molti modi: ci sono meno cose da pulire, è più facile trovarle, e c’è più spazio a disposizione per i bambini. Per cominciare è fondamentale predisporre un piano di azione, un progetto preciso senza il quale il tentativo di riordinare si tradurrebbe in disordine ulteriore. Una volta che si è deciso, è importantissimo non aspettare il momento giusto. Ogni momento è perfetto per iniziare l’opera. Indugiare è solo una perdita di tempo che ha come unico risultato l’aumento del disordine.
Il decluttering potrebbe essere emotivamente e fisicamente estenuante: per questo non è utile porsi obiettivi poco realistici, ma è opportuno sceglierne di fattibili e compatibili con i propri compiti di madre che sono già abbastanza gravosi.
Gli ambienti disordinati spesso sono causa di stress per la maggior parte delle persone, in particolare per le mamme indaffarate che si dividono tra casa e lavoro. In una ricerca recente si è evidenziato, a riprova di questo, che il livello di cortisolo (l’ormone dello stress) è inferiore nelle donne che descrivono le loro case come ordinate, rispetto a quelle che, invece, le descrivono come disordinate. Il decluttering può, quindi, avere implicazioni emotive e psicologiche di rilievo sul benessere delle madri.
Il disordine distrae perché rende difficile trovare ciò di cui si ha bisogno. Eliminarlo, mettendo in ordine, ha come conseguenza una migliore concentrazione. Migliorare lo spazio vitale vale anche come iniezione di autostima: ci si sente orgogliosi di un ambiente ordinato e ci si vergogna, infatti, del disordine.
Una casa disordinata non è necessariamente sporca. E’ difficile, però, pulire bene intorno a una catasta di oggetti. Il decluttering, in questo senso, aiuta a ridurre gli accumuli di polvere, muffe e funghi che possono scatenare asma e allergie.
Il decluttering è una forma di liberazione fisica. Il disordine, infatti, è solitamente il frutto di un vastissimo assortimento di emozioni e ricordi che può trasformarsi in una vera e propria stampella psicologica. Una volta superata la diffidenza iniziale, ci si rende conto di non avere bisogno di un oggetto per ricordare una persona o un evento; ci si accorge semplicemente che le emozioni, i ricordi e sentimenti ci sono ancora anche se ci si è sbarazzati del superfluo.
La caratteristica fondamentale del congedo di maternità è l’obbligatorietà: in quanto obbligatorio, si distingue dal congedo parentale che è, invece, facoltativo. Il principio che sta alla base del congedo di maternità è di assicurare alla madre l’astensione del lavoro, durante la gravidanza e nei mesi appena successivi, sia per tutelare la salute della donna e del bambino, sia per garantire al nascituro l’assistenza e le cure materne.
L’astensione dal lavoro per il congedo di maternità si protrae per un periodo di cinque mesi durante il quale si percepisce l’80% della consueta retribuzione. Anche le madri adottive hanno diritto al congedo: in questo caso, i cinque mesi in cui si ha diritto all’astensione, partono dal momento in cui il bambino adottato entra nel nuovo nucleo familiare.
Il periodo di congedo è discrezionalenelle modalità, ciò vuol dire la madre lavoratrice ha la facoltà di scegliere come usufruire dell’astensione: un mese prima e quattro dopo il parto; due mesi prima e tre dopo; oppure, tutti i cinque mesi dopo aver partorito. Quest’ultima opzione è stata introdotta solo nel 2019 con la legge di bilancio che ha integrato il disposto dell’art. 16 co. 1 del DL 151/2001 (“Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”): il riferimento preciso alle norme che regolano il congedo di maternità è importante per prevenire ed evitare interpretazioni sbagliate.
La lavoratrice, secondo il T.U. citato è tenuta a informare il datore di lavoro dello stato di gravidanza e della data in cui si presume che avverrà il parto. La legge, pur richiedendo questa comunicazione al datore di lavoro, non fornisce indicazioni sui tempi e la modalità della stessa, limitandosi a richiederla non appena sia stato accertato lo stato di gravidanza. Successivamente, la lavoratrice dovrà inoltrare apposita domanda all’INPS.
L’inoltro e, quindi, la compilazione del modello, può avvenire telematicamente (dal sito dell’INPS, accedendo con il proprio SPID) o facendo ricorso a un patronato. Il congedo di maternità spetta alle future mamme lavoratrici dipendenti. È irrilevante se si tratta di un contratto a tempo determinato o indeterminato: conta la natura del rapporto di lavoro. Il congedo spetta anche alle colf e alle badanti regolarizzate con contratto e alle braccianti agricole che abbiano maturato almeno 51 giornate lavorative nell’anno.
Nel caso di gravidanze a rischio che possono compromettere la salute della madre e del bambino, è possibile richiedere l’anticipo del congedo di maternità. È necessario, in questo caso, presentare domanda all’ASL di competenza che deve pronunciarsi sull’accoglimento o il rigetto entro e non oltre 7 giorni dalla presentazione. L’anticipo del congedo può essere retribuito dal datore di lavoro che lo anticipa, per riscattarlo successivamente sui contributi che dovrà versare, o direttamente dall’INPS.
In casi specifici è riconosciuto al padre il congedo di paternità (nel 2021, è di 10 giorni). Si tratta di un’astensione dal lavoro retribuita alternativa al congedo di maternità concessa nel caso di affidamento esclusivo del bambino al padre, in caso di decesso o infermità grave della madre, abbandono del bambino da parte di quest’ultima, e nel caso in cui la madre rinunci al congedo di maternità.
La nascita di un figlio è uno dei momenti più importanti della vita di una donna che inevitabilmente comporta un cambiamento radicale delle proprie abitudini e che spesso, anzi la maggior parte delle volte, conduce anche ad una rivalutazione di numerosi rapporti d’amicizia.
Dunque, una domanda sorge spontanea: perché dopo la maternità è complicato e difficile mantenere stabile e vivo un rapporto con amiche che non hanno figli? La risposta è semplice: spesso è difficile comprendere come i ritmi di vita di una madre possano cambiare, soprattutto per chi di figli non ne ha.
Una piccola premessa è d’obbligo: ogni donna deve sentirsi libera di scegliere se avere o meno dei figli, ma allo stesso modo, tutte le donne devono comprendere come le esigenze di vita cambiano quando una nuova vita viene al mondo.
In base al tipo di comportamento assunto, è possibile classificare le amiche senza figli in diverse tipologie di amiche senza figli
L’amica comprensiva: colei che, essendo empatica, comprende qualsiasi situazione, capisce la tua posizione e nonostante le tue assenze e gli appuntamenti mancati è sempre presente e pronta a darti un supporto e ad offrirti una mano a cui aggrapparti nei momenti di necessità…
La giudicante: ecco, forse lei è quel tipo di amica da cui prendere le distanze. Si tratta di quell’amica che ha deciso di improntare la propria vita su altro, prendendo la difficile decisione di non volere figli ma che, nonostante ciò, fa sentire te come quella sbagliata e inadatta: non perdendo occasione per “bacchettarti”, dispensando ottimi (secondo lei) consigli su come gestire la tua vita di mamma.
La nostalgica: ultima ma non per importanza, c’è colei che ti travolgerà nei momenti pre-concepimento. Proverà ad allontanarti dalla realtà per ricordarti dei momenti divertenti vissuti insieme prima del parto. Ricordandoti la forza che hai dentro, ma soprattutto che sei ancora una donna viva e in grado di divertirti ad una serata tra donne senza la paura di voler tornare a casa dopo aver varcato la porta di casa. Insomma, lei sarà il tuo salvavita nei momenti di stress e tristezza.
La nascita di un figlio cambia il mondo di una madre, ma ogni cambiamento è fonte di bellezza e felicità e in questo caso anche una fonte incondizionata di amore. Ma questo significa che una madre non avrà mai tempo per stare con delle amiche o per fare nuove conoscenze? La risposta è no.
La solitudine fa male, anzi, fare delle nuove amicizie o provare a mantenere vive quelle storiche è un’ottima idea, soprattutto perché una donna oltre ad essere una madre è anche un’amica, amante, moglie e tanto altro. Allontaniamo le amicizie tossiche, di amiche che ci hanno sempre giudicate e mai comprese, guardate con gli occhi dell’invidia e mai di ammirazione e gratitudine e diamo il benvenuto a donne che ci sostengono, nonostante non siano ancora madri.
Il mito della “buona madre” si fonda tutto sull’esistenza dell’istinto materno: una sorta di capacità innata secondo la quale la donna ha una naturale propensione ad accudire i bambini senza mai sbagliare, sentire la fatica o peggio lamentarsi delle difficoltà legate al ruolo.
L’idea di istinto materno, come di una caratteristica che riguarda la donna in generale, definendo la sua identità, ha fatto assumere alla maternità stessa una funzione di completamento nel percorso di vita della donna (che pertanto se non è madre è donna a metà) e ha finito con il relegarla in casa oppure in ruoli subordinati…
Ma che cosa sono gli istinti? Partiamo proprio da questo. Dalla definizione riportata da William James, gli istinti sono una tendenza innata ad avere un determinato comportamento, senza che a monte si trovi formazione o una decisione vincolante. L’istinto materno sarebbe perciò il bisogno di avere bambini e una misteriosa abilità di allevarli in maniera automatica.
Da molte definizioni addirittura si desume che questo ipotetico istinto sia frutto di una predisposizione biologica ereditaria e non consentire il suo manifestarsi si tradurrebbe in comportamenti innaturali e anormali.
Dalle ricerche effettuate da Sarah Blaffer Hrdy, proiatologa e antropologa americana, l’uso della locuzione istinto materno sarebbe controproducente per i bambini. Studi sui languri e tamarini, primati poco noti al grande pubblico, emergono molti comportamenti delle femmine nei confronti della prole, legati alle condizioni ambientali e perciò appresi… non istintuali, appunto.
Secondo la Hrdy in presenza di un eventuale istinto materno… [SEGUE]
Negli ultimi anni sono sempre di più le mamme che, sfidando i pregiudizi, hanno cominciato a condividere su internet le gioie e le sfide che vivono ogni giorno. Se un tempo ci si scambiava consigli e opinioni nelle sale d’attesa del pediatra, oggi le mamme comunicano attraverso i social network e forum.
Quando è esploso per la prima volta il fenomeno delle mamme blogger, le critiche non hanno tardato ad arrivare. Tuttavia con il passare degli anni è cambiato il modo di vedere questi strumenti e oggi molte di loro, che nel gergo informatico vengono chiamate “mommy blogger” oppure “instamoms”, hanno raggiunto un livello di popolarità inimmaginabile tanto da costruirci su una vera e propria carriera.
Questo fenomeno affonda le proprie radici in America, dove le mamme blogger stipulano accordi commerciali con aziende che vendono prodotti per bambini, diventando così a tutti gli effetti dei punti di riferimento per le altre mamme che necessitano di consigli.
Negli ultimi anni anche in Italia questo fenomeno ha coinvolto diverse mamme, tuttavia nonostante non siano stati ancora raggiunti i livelli dell’America, molte di loro sono diventate delle vere star del web.
Secondo una ricerca condotta dall’agenzia FattoreMamma, l’età media delle mamme influencer italiane è compresa tra i 35 e 45 anni e i momenti della giornata in cui preferiscono collegarsi sono la mattina e tarda serata.
Vedere il proprio figlio piangere per motivi apparentemente non validi, come il semplice avvicinarsi di una persona non familiare, può destare preoccupazione nei genitori, oltre che essere fonte di imbarazzo.
Uno dei fenomeni più frequenti che coinvolge la maggior parte dei neonati è proprio la paura degli estranei, nota come “crisi dell’ottavo mese”. Il bambino, specie quando si trova nei primi di mesi di vita, reagisce a questo stimolo esterno utilizzando il pianto. Si tratta di una fase transitoria, che accompagna il neonato dagli otto mesi in poi, e che va poi a esaurirsi entro il secondo anno d’età.
Perché i neonati hanno paura degli estranei? Questa reazione viene stimolata nel momento in cui i bambini si rendono conto che davanti a sé non hanno più il genitore, bensì una persona sconosciuta, che non fa parte del proprio “nido”.
Si tratta di uno stato d’animo che rimarca a tutti gli effetti un rifiuto da parte del neonato delle persone che ha davanti, anche se si tratta dei nonni.
Molti genitori sono convinti che questa fase non sia funzionale nella crescita dei propri bambini, in verità è un chiaro segnale che indica i progressi compiuti dai bambini stessi: solitamente i neonati cominciano a distinguere i genitori dalle altre persone intorno all’ottavo mese, e nel momento in cui trovano davanti a sé un estraneo percepiscono un senso d’ansia, perché hanno coscienza del distacco avvenuto tra loro e i/il genitori/e.
In base a quanto dimostrato da recenti studi svizzeri, la procedura diagnostica che tutti conosciamo come ecografia ostetrica stimolerebbe il legame tra genitori e figlio. In che modo?
La visione “concreta” del bambino, effettuata attraverso le immagini ecografiche, a partire dal sesto mese di gravidanza, attiverebbe immediatamente le dinamiche verso la costruzione della relazione co-genitoriale.
Trasformarsi in genitori rappresenta un’importante fase di cambiamento sia per la donna che per l’uomo. La coppia, abituata a condurre un rapporto coniugale a due, vive un momento di transizione alla genitorialità e cogenitorialità. Condizioni significative dal punto di vista emozionale, fisico e sociale, osservabili a partire dal secondo trimestre di gravidanza.
L’atteggiamento reciproco e responsabile dei genitori s’intensifica via via durante il corso della gravidanza. Nello specifico, quando il bambino viene percepito concretamente, attraverso i movimenti fetali, e non più a livello immaginario. In questo processo di interazione familiare svolgerebbe, secondo gli studi, un ruolo fondamentale l’ecografia ostetrica, specie quella a quattro dimensioni (4D).
Nel processo psicologico dell’attesa, l’ecografia di routine, oltre a rassicurare la famiglia sullo stato di salute del bimbo, potrebbe dunque servire a dare un volto ed un’identità al nascituro. La conoscenza del prototipo infantile da parte dei genitori renderebbe perciò la gravidanza ancora più “reale”: impegnando la coppia in una riorganizzazione delle rappresentazioni mentali di se stessi e del bambino, e ne rafforza il legame.
Il rapporto madre-figlia è un rapporto in continua evoluzione, cambia dall’infanzia all’adolescenza e ancora in età adulta e allo stesso tempo è un pilastro fondamentale in ogni esperienza di vita che condiziona innumerevoli esperienze.
Anche durante la gravidanza, già di per sé periodo di grandi cambiamenti fisici e psicologici, il rapporto madre-figlia subisce un’ulteriore evoluzione.
La prospettiva di doversi occupare di un neonato, che dipende in tutto e per tutto dai genitori, può far paura e può mettere spesso in crisi le neo-mamme.
Mentre si cerca di costruire la propria identità di madre, ogni donna tende a fare riferimento all’esperienza diretta appoggiandosi alla propria figura materna: è così che durante la gravidanza il rapporto madre-figlia cambia ancora e si evolve con l’obiettivo di aiutare la gestante a costruire la propria identità e a superare nel migliore dei modi un periodo di forte cambiamento.
Avere paura ed essere insicure durante la gravidanza è del tutto normale, per questo spesso si cerca supporto e consiglio nella figura materna nel percorso che porta la gestante ad essere non più figlia ma a sua volta mamma.
L’equilibrio che si instaura in questo particolare momento… [SEGUE]
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