Intrattenere un neonato giocando

Intrattenere un neonato giocando

Gioco e neonato sembrano due concetti antitetici perché siamo convinti che il bimbo sia troppo piccolo per sperimentare un’attività ludica finalizzata all’apprendimento.

In realtà le cose non stanno così: la mente e il corpo del bambino si stanno sviluppando velocemente e in modo sorprendente. Durante il primo mese di vita il piccolo apprende e impara grazie all’interazione con i genitori. Ma come si fa a giocare con un neonato?

Durante il primo mese di vita, la pancia di mamma e papà è più interessante e stimolante di un parco giochi. Gli esperti consigliano infatti di mettere il bambino sulla pancia, quando è sveglio, più volte al giorno. Il focus di questa coccola-esercizio è aiutarlo a sviluppare le prime capacità motorie che coinvolgono anche la testa.

E se il bimbo non ama questa posizione? L’alternativa è sdraiarlo accanto a voi su un pavimento, incoraggiandolo a sollevare la testa con l’ausilio di un asciugamano morbido da mettere sotto il suo corpo per agevolarne i movimenti.

Il bambino alla nascita è dotato di alcuni riflessi involontari che gli garantiscono senza dubbio la sopravvivenza ma non dobbiamo sottovalutare la loro importanza in termini di interazione con il mondo esterno.

Se proviamo a toccargli una guancia appena nato, il piccolo si girerà istintivamente verso quel lato, pronto a nutrirsi: è un semplice riflesso, chiamato di radicazione. Se invece stimoliamo il piccolo con il gioco, nel giro di 3/4 settimane, inizierà a girarsi non per un semplice riflesso ma perché avrà imparato che in quella direzione trova del cibo. È una piccola conquista a metà strada tra l’orientamento temporale e la consapevolezza.

Non sottovalutiamo l’importanza del linguaggio, anche se ci può sembrare prematuro nei primi mesi di vita. In realtà i piccoli iniziano a collegare il suono della voce al volto ed è proprio quel suono che li spinge a essere più attivi e vigili. Non ha importanza quello che diciamo ma il modo.

Parliamo di qualsiasi cosa ma cerchiamo di intrattenerlo il più possibile con la nostra voce: il piccolo ascolta, collega e impara. Sotto questa ottica anche cantare diventa uno strumento indispensabile perché crea un apprendimento rapido e piacevole. Il bambino, grazie a questi piccoli gesti, impara a sua volta a comunicare.

Nei primi mesi di vita è necessario fornire al neonato una stimolazione che passa attraverso l’utilizzo di piccoli sonagli, giocattoli musicali o tramite la lettura di un libro colorato, uno strumento ideale per continuare a far sentire la nostra voce al bambino, modulando anche il tono e l’intensità.

Fonti

Learning, Play, and Your Newborn

Am I Doing Enough With My Newborn?

Bambini: educare all’amicizia

Bambini: educare all’amicizia

L’amicizia è un fatto imponderabile, indefinibile in tanti suoi aspetti, ma una cosa è certa, inizia a farsi vedere dai primi anni dell’infanzia e sa crescere a volte per tutta la vita.

Difficile dare una definizione, ma l’amicizia è un fattore che tutti conosciamo e di cui godiamo, un rapporto universale con alcune caratteristiche più o meno sempre presenti, come intensità, reciprocità e un aiuto a dirimere i problemi in modo pacifico, ma senza imposizioni.

Negli anni ’70 gli studiosi dello sviluppo tendevano a negare la capacità dei bambini di creare relazioni significative amicali, ponendo quelle con la madre come principale e dominante. Per la psicanalista Susan Isaacs i rapporti fra bambini erano solo derivanti da un approccio egoistico.

Studi recenti come quelli di Baumgartner e Bombi (2005) sembrano ribaltare la prospettiva affermando che fra i 3 e 6 anni i bambini sanno già costruire rapporti con i coetanei senza la mediazione di un adulto.

L’amicizia cambia con le fasi della vita. Dai 3 ai 5 anni l’amico è sempre momentaneo, una sorta di avversario con cui si instaura una tregua di gioco, secondo le teorie di Rubin del 1998, ma il rapporto si interrompe se mancano le condizioni sicure.

Per gli adulti l’amicizia è alla base di una formazione del carattere e del rapporto con gli altri, ma è un aspetto che si apprende da bambini, con la crescita dell’autostima e della percezione dei confini nelle relazioni.

Gli adulti possono formare il bambino all’amicizia, interagendo con lui in modo empatico e sano, aiutandolo a sviluppare bisogni e limiti e ponendosi come modello delle relazioni amicali, mostrando un buon comportamento nei rapporti di questo tipo fra adulti.

Possono anche svolgere il ruolo di facilitatori, invitando amici e candidati per appuntamenti di gioco. Inoltre possono svolgere un ruolo soft di arbitro, spingendo alla ricerca di una soluzione pacifica e con autocontrollo, ma senza dare un giudizio in ambiti che non sono di loro pertinenza.

Le amicizie sono anche il punto di partenza per creare una relazione con chi è differente, perché in assenza di preconcetti e tabù i bambini possono relazionarsi anche con compagni di strati sociali differenti, di nazionalità diverse, anche grazie ad un forte linguaggio non verbale che caratterizza giocoforza le loro prime amicizie, gettandole basi per diventare adulti stabili e capaci di interpretare i comportamenti di chi hanno davanti e di capirne bisogni esigenze e anche i limiti.

Fonti

Children’s friendships

Judy Dunn, 2006, L’amicizia tra bambini

Emma Baumgartner, Anna Silvia Bombi, 2005, Bambini insieme. Intrecci e nodi delle relazioni tra pari in età prescolare

L’amicizia tra bambini: un valore importante

I bambini e il lutto. Come aiutarli a comprenderlo e affrontarlo.

I bambini e il lutto. Come aiutarli a comprenderlo e affrontarlo.

I bambini hanno bisogno di informazioni semplici e, soprattutto, oneste rispetto a un evento luttuoso, con tutto ciò che ne consegue, e alla morte come evento fisico. Nel caso di decesso di una persona cara o importante nella vita del bambino, è indispensabile parlarne il prima possibile. Apprendere la notizia della morte accidentalmente o da qualcuno a cui non è vicino, potrebbe provocare al bambino una reazione emotiva ancora più spiazzante e dolorosa. Se si hanno più bambini, gli esperti consigliano di valutarne età e il carattere per decidere se è meglio informarli insieme o separatamente.

Il bambino ha bisogno dell’aiuto degli adulti per capire la morte. È meglio, quindi, spiegare cosa è successo nel modo più semplice e veritiero possibile. Ad esempio, un bambino a cui viene detto che il nonno è andato a dormire per sempre potrebbe avere difficoltà ad addormentarsi per il timore inconscio di non svegliarsi più. I bambini più piccoli potrebbero non sapere affatto cosa significhi la morte, quindi il genitore potrebbe aver bisogno di descrivere il fatto in sé e assicurarsi, con delicatezza estrema, che abbiano capito.

Quando qualcuno muore, i bambini si pongono tutta una serie di quesiti ai quali, in qualche modo, l’adulto deve dare una risposta. Prepararsi in anticipo a rispondere a queste domande, può rendere le cose più facili da gestire. La domanda principale sarà sicuramente: perché? Il bambino cerca di dare un senso alla morte cercando di scoprirne la causa. La risposta deve essere chiara, facilmente comprensibile: il cuore del nonno era molto vecchio e i dottori hanno provato ad aggiustarlo, ma non ci sono riusciti.

Molto spesso il bambino, come reazione al lutto, può temere la propria morte o che muoiano i genitori o le persone che gli sono più vicine. Per tranquillizzarlo, si suggerisce di spiegargli che la maggior parte delle persone muore solo quando sono molto vecchie e molto malate.

Cosa accade dopo la morte è un’altra delle questioni sulle quali il bambino indagherà. La risposta dipende dalle convinzioni personali o spirituali della famiglia dalle quali, il genitore o chi per lui, può scegliere di partire per tratteggiare una spiegazione che sia la meno traumatica possibile.

Molte persone trovano conforto nel dare ai propri figli un appiglio su cui concentrarsi quando pensano alla persona defunta: gli dicono che il nonno è in cielo, ad esempio.

Qualunque cosa si scelga di dire al bambino, è utile solo se riesce a rasserenarlo senza confonderlo. Ha molta importanza, in questo caso, il tono rassicurante usato dall’adulto.

Un’esperienza luttuosa, di per sé dolorosa e traumatizzante anche per gli adulti, con i bambini deve essere affrontata tenendo conto delle implicazioni psicologiche sulla vita del piccolo che, per via della perdita, subisce uno scossone i cui riverberi vanno contenuti e affievoliti con l’aiuto in primo luogo dei genitori.

Fonti:

Aiutare i bambini ad affrontare il lutto

Come preparare i bambini all’elaborazione di un lutto

Quanto deve dormire un neonato?

I neonati, a differenza degli adulti, non sono ancora in grado di gestire correttamente il ritmo circadiano. Pertanto hanno bisogno di dormire anche di giorno, per un totale di 14/17 ore. Man mano che crescono, le ore di sonno necessarie al loro benessere diminuiscono progressivamente per assestarsi, attorno ai sei anni e quindi all’inizio della scuola primaria, attorno alle 7/9 ore di riposo esclusivamente notturno, più o meno come gli adulti.

Una premessa importante: ogni bambino è diverso e ha esigenze diverse, perciò occorre tenere presente che ogni indicazione relativa al numero di ore di sonno, è da considerarsi come indicazione di massima. La realtà concreta non aderisce a rigidi schemi, anche se questi possono fare da riferimento generale.

Finché si nutrono solo con latte materno o in polvere, i neonati generalmente fanno una poppata ogni 2/3 ore, quindi si svegliano ciclicamente seguendo il proprio ritmo alimentare. Non a caso, i primi mesi di vita di un bambino sono anche i più impegnativi per i genitori, che sono costretti a svegliarsi di notte diverse volte per poter nutrire il piccolo secondo le sue esigenze.

Con lo svezzamento le cose “migliorano“, in quanto i cibi solidi donano un senso di sazietà più lungo e, di conseguenza, il piccolo comincerà ad avere un ritmo di sonno/veglia più regolare. A partire dai 6/8 mesi, infatti, la maggior parte dei bambini è in grado di dormire 10 ore continuative di notte con due sonnellini diurni, uno a metà mattina e uno a metà pomeriggio.

Questo schema può essere considerato ideale fino ai 3 anni, quando il piccolo inizierà a frequentare la scuola dell’infanzia. A quel punto il ciclo del sonno ideale del bambino prevede un riposo notturno di 11/12 ore e un sonnellino pomeridiano di 1/2 ore.

Oltre alla quantità del sonno, è importante controllarne anche la qualità... [SEGUE]

Bambini e animali domestici: un binomio di successo

Bambini e animali domestici: un binomio di successo

Diversi studi forniscono prove a sostegno del fatto che prendersi cura di animali domestici sia un bene per la salute mentale e fisica dei bambini.

È importante scegliere un tipo di animale domestico adatto all’abitazione e allo stile di vita della famiglia. Inoltre, poiché i bambini molto piccoli (di età inferiore ai 3-4 anni) non hanno la maturità necessaria a controllare i loro impulsi, è opportuno tenerli sempre sotto controllo, per evitare che facciano inconsapevolmente del male all’animale.

Con la supervisione dei genitori, i bambini di età superiore agli 8 anni possono prendersi cura di cani e gatti anche da soli. I genitori fungono da modelli. I bambini, infatti,imparano ad accudire un animale domestico in modo responsabile osservando il comportamento dei genitori.

Crescere con un cucciolo aiuta il bambino ad avere fiducia in se stesso, a relazionarsi con gli altri e a sviluppare sentimenti positivi, come la compassione e l’empatia.

È importante fare alcune considerazioni sull’annosa convinzione che i cani e gatti possano essere causa di allergie infantili. Numerose ricerche sembrano provare esattamente il contrario: stare in contatto costante con un gattino o un cagnolino, potrebbe addirittura ridurre il rischio dell’insorgenza di allergie nei bambini.

Il professor Thomas Platts-Mill dell’Università della Virginia, specialista in allergologia, coadiuvato da colleghi svedesi, è arrivato a dimostrare che i bimbi che vivono insieme a gatti o cani (anche più di due) hanno fino al 77% in meno di probabilità di incorrere in diverse tipologie di allergie all’età di sei anni rispetto ai coetanei che, invece, vivono senza animali. Oltre alle allergie agli animali domestici, gli stessi bambini svilupperebbero, secondo lo studio di Platts-Mill, reazioni allergiche alla polvere e alle erbe in quantità notevolmente inferiore.

Uno studio finlandese, guidato dal dott. Eija Bergroth ha monitorato 397 bambini sin dalla nascita e fino al compimento del primo anno di vita. I bambini con cani in casa sono risultati più sani (nel senso che avevano manifestato meno sintomi o infezioni del tratto respiratorio) rispetto ai bambini senza contatti con cani.

Inoltre, i bambini che avevano contatti con il cane a casa manifestavano otiti meno frequenti e tendevano ad aver bisogno di meno cicli di antibiotici. Nell’analisi, la quantità settimanale e annuale di contatti con i cani è stata associata proporzionalmente a una ridotta morbilità delle malattie infettive respiratorie.

Questi risultati suggeriscono che i contatti con gli animali proteggerebbero i bambini dalle infezioni del tratto respiratorio durante il primo anno di vita. I risultati degli studi citati, pur derivati da semplici osservazioni e non da evidenze cliniche, possono tranquillizzare i genitori che già possiedono un animale domestico e stanno per avere un bambino.

Fonti

Chen CM et al. The role of cats and dogs in asthma and allergy–a systematic review.
Int J Hyg Environ Health. 2010 Jan;213:1-31

Ownby DR et al. Exposure to dogs and cats in the first year of life and risk of allergic sensitization at 6 to 7 years of age. JAMA 2002 Aug 28; 288:963-72.

Gaffin JM et al. Effect of cat and daycare exposures on the risk of asthma in children with atopic dermatitis. Allergy Asthma Proc. 2012 May-Jun;33:282-8.

Bergroth E et al. Respiratory Tract Illnesses During the First Year of Life: Effect of Dog and Cat Contacts. Pediatrics 2012; doi: 10.1542/peds.2011-2825.

Ospedale Bambin Gesù

Lo sviluppo del linguaggio: la fase della lallazione

Lo sviluppo del linguaggio: la fase della lallazione

Si chiama lallazione ed è un vero e proprio training motorio che permette al bambino di allenarsi nella produzione dei suoni tipici che precedono la comparsa del linguaggio.

Conosciuta anche come bubbling, questa fase segna il suo esordio intorno ai 5 o 6 mesi di vita. Il piccolo inizia a emettere dei piccoli suoni che di per sé non hanno alcun significato pratico. Da un punto di vista strettamente emotivo invece la lallazione produce piacere nel bambino che ama ascoltarsi e ripetere quanto più possibile una serie di semplici sillabe.

Nonostante il bubbling sia un allenamento che precede lo sviluppo della parola e del linguaggio, non dobbiamo sottovalutarne la potenza espressiva. Con il tempo il bambino infatti impara a modulare tono, ritmo e frequenza dei suoni emessi, riuscendo così a comunicare ai genitori le sensazioni che prova: rabbia, gioia, fastidio.

La lallazione è caratterizzata da due stadi. Il primo è quello del bubbling canonico. Il piccolo inizia a produrre un suono composto da sillabe identiche tra loro: ma-ma-ma, ad esempio, oppure pa-pa-pa. La sequenza è sempre la stessa (consonante e vocale) e viene ripetuta numerose volte.

Sembrano parole di senso compiuto, come mamma e papà: in realtà il bimbo sta semplice iniziando a produrre suoni elementari. Verso i 10 mesi il piccolo modifica le sillabe e ne produce di più complesse.

Questa fase, chiamata lallazione variata, rappresenta lo stadio delle proto-parole: la struttura è più complessa, lunga, articolata e quasi intenzionale. Le sillabe assumono una forma diversa (ma-pa-ma-na ad esempio) e un preciso significato in base al contesto in cui vengono utilizzate.

Lo stadio successivo è quello del linguaggio e delle prime parole che saranno chiare e di buona qualità se la lallazione avrà attraversato una serie di step ben precisi: l’esordio intorno ai 5/6 mesi e il passaggio da uno stadio all’altro.

A questo va aggiunto anche un altro punto fondamentale: il bubbling deve essere frequente e rumoroso. Il bimbo si esercita spesso nella produzione delle piccole sillabe e lo fa in momenti quali il cambio del pannolino o durante il bagnetto. La lallazione non è assolutamente codificata e uguale in tutti i bambini in quanto dipende dalla singola maturità funzionale ma anche dal contesto linguistico nel quale vive il piccolo.

Non deve allarmare inoltre un improvviso blocco nell’emissione di questi suoni. Una regressione è del tutto normale e spesso preannuncia l’arrivo delle prime parole. Cosa fare se il bimbo non lalla? Non bisogna spaventarsi ma semplicemente iniziare a stimolare il piccolo con giochi e piccole conversazioni.

Fonti:

S. Bruner, “Il linguaggio del bambino. Come il bambino impara a usare il linguaggio”.

M. Tomasello, “Le origini della comunicazione umana”

Lo sviluppo comunicativo e linguistico del bambino

“Solo” una sculacciata? Perché non serve ed è dannosa

“Solo” una sculacciata? Perché non serve ed è dannosa

I genitori di una volta erano convinti che attraverso le sculacciate fosse possibile educare i propri figli, insegnando loro che quel dato comportamento era errato. Non serve andare indietro di generazioni: quanti di noi ricorderanno di aver ricevuto qualche ceffone o pacca sul sedere, sentendosi dire frasi del tipo “lo faccio per il tuo bene”.

Ancora oggi è diffusa l’idea secondo cui le punizioni corporali, anche una semplice sculacciata ogni tanto, non solo non faccia male ma sarebbe addirittura educativa.

La ricerca si è interrogata a lungo circa la funzionalità educativa della sculacciata, ed è giunta a una conclusione: sculacciare non solo non offre un insegnamento, ma può creare danni seri a carico del cervello del bambino. Ciò avviene perché la sostanza grigia del cervello controlla sia la parte relativa al linguaggio e al ragionamento, sia quella relativa al controllo muscolare.

Questo metodo educativo, oltre a creare danni seri, suscita nel bambino un comportamento aggressivo, che può condizionare anche il suo rendimento scolastico.

Gli studiosi, inoltre, hanno osservato che i bambini che vengono sottoposti a punizioni corporali tendono ad avere una visione distorta del mondo: essi, infatti, si convincono che tutta la realtà che li circonda sia cattiva e ostile e di conseguenza attuano un comportamento di autodifesa, che li porta a essere maldisposti e aggressivi.

Questa teoria è stata illustrata da alcuni psicologi americani (Elizabeth T. Gershoff, Jerome M. Sattler e Daniel Ansari), i quali in una pubblicazione del 2018 hanno dichiarato che su dodicimila bambini quelli che a cinque anni hanno subito punizioni corporali, negli anni successivi (in particolare tra i sei e gli otto anni) hanno sviluppato comportamenti aggressivi.

Questo meccanismo nasce perché il bambino, vedendo l’adulto utilizzare questi modi nei momenti di rabbia, si convince che l’unico modo possibile per esprimere i propri sentimenti (in particolar modo, quelli negativi) sia alzare le mani.

Durante la crescita, i bambini vengono influenzati notevolmente dai comportamenti delle persone che li circondano e, data la loro tenera età, non sono in grado di comprendere che utilizzare le botte come metodo educativo sia errato e controproducente.

Nel momento in cui i bambini sono costretti a subire questo tipo di educazione, oltre a sentire dolore fisico, vengono pervasi da un senso di paura che non consentirà loro di comprendere i motivi di quel gesto, ossia della sculacciata; questo dimostra quanto, oltre a essere sbagliato, sia inutile sculacciare i propri figli.

Nella maggior parte dei casi, i genitori che scelgono di seguire un metodo educativo basato sulle sculacciate hanno avuto a loro volta un’educazione basata sulle punizioni corporali e, non ammettendo questo collegamento, daranno vita a un circolo vizioso dannoso non solo per i propri figli, ma anche per le future generazioni.

Fonti:

D’Ambrosio, Psicologia delle punizioni fisiche. I danni delle relazioni educative aggressive, Milano 2004

Miller, Il risveglio di Eva: come superare la cecità emotiva, ed. Cortina, Milano 2002

Dott. Carmen Guarino: Perché non si picchiano i bambibni?

Dott. Maria Teresa Caputo: Sculacciare i bambini non è educativo

È geloso del fratellino. È gelosa della sorellina.

L’arrivo di un neonato in casa porterà grandi novità nella vita di tutti, ma a dover gestire il cambiamento maggiore, sarà sicuramente il fratello/la sorella maggiore.

Ritrovarsi a dividere le attenzioni del genitore, avere un nuovo bambino in casa che tenderà ad attirare, almeno per i primi i tempi, tutta l’attenzione su di sé, potrà apparire al primogenito come un grande sconvolgimento difficile da comprendere e accettare.

Gelosie, dispetti, irritabilità sono normalissimi soprattutto nel primo periodo ma sicuramente sono molto difficili da gestire per i genitori che spesso non sanno come comportarsi per rendere questo periodo di transizione il più sereno possibile per la propria famiglia.

Per aiutare il proprio bambino ad accettare nel modo migliore l’arrivo di un fratellino o di una sorellina possono essere utilizzati piccoli accorgimenti.

Innanzitutto sarà utile coinvolgere il bambino nella cura del nuovo arrivato, farlo sentire parte della nuova avventura e dargli qualche piccola responsabilità.

Nonostante il neonato richieda sicuramente costanti e importanti attenzioni, è importante mettere al primo posto qualche volta il fratello maggiore facendolo sentire sempre importante e focalizzando solo su di lui l’attenzione quando necessario.

Sarà importante anche provare… [SEGUE]

La paura degli estranei nei neonati

Vedere il proprio figlio piangere per motivi apparentemente non validi, come il semplice avvicinarsi di una persona non familiare, può destare preoccupazione nei genitori, oltre che essere fonte di imbarazzo.

Uno dei fenomeni più frequenti che coinvolge la maggior parte dei neonati è proprio la paura degli estranei, nota come “crisi dell’ottavo mese”. Il bambino, specie quando si trova nei primi di mesi di vita, reagisce a questo stimolo esterno utilizzando il pianto. Si tratta di una fase transitoria, che accompagna il neonato dagli otto mesi in poi, e che va poi a esaurirsi entro il secondo anno d’età.

Perché i neonati hanno paura degli estranei? Questa reazione viene stimolata nel momento in cui i bambini si rendono conto che davanti a sé non hanno più il genitore, bensì una persona sconosciuta, che non fa parte del proprio “nido”.

Si tratta di uno stato d’animo che rimarca a tutti gli effetti un rifiuto da parte del neonato delle persone che ha davanti, anche se si tratta dei nonni.

Molti genitori sono convinti che questa fase non sia funzionale nella crescita dei propri bambini, in verità è un chiaro segnale che indica i progressi compiuti dai bambini stessi: solitamente i neonati cominciano a distinguere i genitori dalle altre persone intorno all’ottavo mese, e nel momento in cui trovano davanti a sé un estraneo percepiscono un senso d’ansia, perché hanno coscienza del distacco avvenuto tra loro e i/il genitori/e.

Questa fase, seppur transitoria, può… [SEGUE]