Gli sbalzi d’umore durante la gravidanza sono causati da una varietà di fattori, tra cui le variazioni ormonali, i disagi fisici e le normalissime preoccupazioni per l’imminente cambiamento di vita dovuto all’arrivo del bambino.
Durante la gestazione gli ormoni, in particolare estrogeno e progesterone, cambiano, infatti, molto rapidamente: basti pensare che durante le prime 12 settimane di gravidanza aumentano di oltre 100 volte. L’estrogeno è associato alla serotonina, il cosiddetto ormone della felicità: squilibri e fluttuazioni in questo neurotrasmettitore possono causare un notevole squilibrio emotivo.
Il modo esatto in cui gli estrogeni e la serotonina interagiscono tra loro non è ancora completamente noto. Ciò che sembra essere evidente è che i cambiamenti nei livelli di estrogeni causano ansia e irritabilità.
Anche il progesterone aumenta rapidamente durante la gravidanza, soprattutto durante i primi tre mesi. Mentre l’estrogeno è solitamente associato all’energia, il progesterone è associato al rilassamento. In effetti, il progesterone durante la gravidanza fa rilassare i muscoli per prevenire contrazioni premature dell’utero. In alcune donne, l’eccessivo rilassamento si traduce in stanchezza e persino tristezza.
I disagi fisici della gravidanza possono causare un profondo disagio emotivo. È il caso della nausea mattutina che scatena l’incertezza e l’ansia delle gestanti. Lo stress di sentirsi praticamente ostaggio della possibile nausea può essere molto intenso influendo negativamente sull’umore.
L’affaticamento del primotrimestre o la privazione del sonno in tarda gravidanza possono incrementare ulteriormente la volubilità della gestante.
Durante il secondo trimestre in cui l’aumento degli ormoni rallenta, la maggior parte delle donne si sente più energica e non ha più la nausea mattutina, o almeno non in forma grave. A scatenare gli sbalzi d’umore in questa fase sono i cambiamenti fisici: il corpo della donna comincia a cambiare forma e molte non vivono le modifiche con serenità.
Anche i test prenatali durante il secondo trimestre possono causare stress emotivo. L’amniocentesi, quando raccomandata, viene solitamente eseguita all’inizio del secondo trimestre. Decidere se sottoporsi o meno ai test prenatali e l’ansia per i risultati possono causare stress emotivo e conseguente umore instabile.
Cambi improvvisi di umore possono costituire un segnale di gravidanza in atto anche se, in effetti, molte donne sperimentano sbalzi simili prima dell’arrivo del ciclo: se si sospetta di essere incinta, un test servirà a sciogliere tutti i dubbi.
I termini medicina narrativa non sono conosciuti dalla maggior parte delle persone anche se il loro significato è abbastanza intuitivo.
Si tratta, infatti, di una metodologia di intervento terapico-assistenziale che avviene tramite la narrazione dei diversi punti di vista dell’esperienza che si sta vivendo. La narrazione di se stessi e di quello che si sta passando non viene, però, effettuata solo da parte della futura madre, ma anche dal personale sanitario coinvolto, dal futuro padre e dalla famiglia.
Questa tipologia di pratica viene ormai utilizzata per tantissime condizioni e patologie, come ad esempio il cancro e la sclerosi multipla e tra queste vi è anche il momento tanto bello, quanto doloroso e sconvolgente del parto.
In ogni caso, i benefici che se ne possono trarre vanno a volte anche al di là di ogni aspettativa e riguardano tutti i soggetti che, con ruoli diversi, sono coinvolti nella terapia.
Medici, infermieri ed ostetriche, ad esempio, tramite la narrazione possono portare fuori tutte le loro ansie, paure difficoltà e senso di responsabilità e sicuramente anche il lavoro di squadra ne troverà giovamento.
Per la futura mamma e il papà poter esprimere tutte le preoccupazioni, i timori e le perplessità può essere fondamentale per vivere il parto, ma anche tutti i momenti che lo precedono e lo seguono, in maniera più consapevole.
Avvicinandosi alla fatidica data, infatti, è normale farsi prendere dall’agitazione, quando invece sarebbe molto più costruttivo essere razionali e pacati.
A parole può sembrare facile, ma è normale che mamma e papà, soprattutto se sono al loro primo figlio, possano entrare in crisi. La paura del parto, infatti, può essere provocata dal timore di non essere in grado di far nascere il bimbo in maniera naturale, dal dolore fisico che si proverà, dalla preoccupazione che qualcosa possa andare storto e che il bambino, magari, possa avere delle patologie non scoperte durante tutta la gravidanza.
Ma il parto è anche il momento che dà inizio a una nuova vita per mamma e papà che cambierà da quel momento e per sempre. Ecco perché poter raccontare se stessi e quello che si sta provando e condividere le proprie esperienze e sensazioni con chi sta provando le stesse cose e sta vivendo gli stessi momenti può essere davvero fondamentale.
Quando ci si trova in queste sedute di gruppo, dopo l’imbarazzo iniziale, si comincia a raccontare e a liberare la mente di ogni pensiero.
Moltissime persone sono purtroppo ancora scettiche nei confronti della medicina narrativa, considerandola solo una delle tante mode del momento priva di qualsiasi fondamento scientifico, ma altrettante si sono dovute ricredere.
L’amicizia è un fatto imponderabile, indefinibile in tanti suoi aspetti, ma una cosa è certa, inizia a farsi vedere dai primi anni dell’infanzia e sa crescere a volte per tutta la vita.
Difficile dare una definizione, ma l’amicizia è un fattore che tutti conosciamo e di cui godiamo, un rapporto universale con alcune caratteristiche più o meno sempre presenti, come intensità, reciprocità e un aiuto a dirimere i problemi in modo pacifico, ma senza imposizioni.
Negli anni ’70 gli studiosi dello sviluppo tendevano a negare la capacità dei bambini di creare relazioni significative amicali, ponendo quelle con la madre come principale e dominante. Per la psicanalista Susan Isaacs i rapporti fra bambini erano solo derivanti da un approccio egoistico.
Studi recenti come quelli di Baumgartner e Bombi (2005) sembrano ribaltare la prospettiva affermando che fra i 3 e 6 anni i bambini sanno già costruire rapporti con i coetanei senza la mediazione di un adulto.
L’amicizia cambia con le fasi della vita. Dai 3 ai 5 anni l’amico è sempre momentaneo, una sorta di avversario con cui si instaura una tregua di gioco, secondo le teorie di Rubin del 1998, ma il rapporto si interrompe se mancano le condizioni sicure.
Per gli adulti l’amicizia è alla base di una formazione del carattere e del rapporto con gli altri, ma è un aspetto che si apprende da bambini, con la crescita dell’autostima e della percezione dei confini nelle relazioni.
Gli adulti possono formare il bambino all’amicizia, interagendo con lui in modo empatico e sano, aiutandolo a sviluppare bisogni e limiti e ponendosi come modello delle relazioni amicali, mostrando un buon comportamento nei rapporti di questo tipo fra adulti.
Possono anche svolgere il ruolo di facilitatori, invitando amici e candidati per appuntamenti di gioco. Inoltre possono svolgere un ruolo soft di arbitro, spingendo alla ricerca di una soluzione pacifica e con autocontrollo, ma senza dare un giudizio in ambiti che non sono di loro pertinenza.
Le amicizie sono anche il punto di partenza per creare una relazione con chi è differente, perché in assenza di preconcetti e tabù i bambini possono relazionarsi anche con compagni di strati sociali differenti, di nazionalità diverse, anche grazie ad un forte linguaggio non verbale che caratterizza giocoforza le loro prime amicizie, gettandole basi per diventare adulti stabili e capaci di interpretare i comportamenti di chi hanno davanti e di capirne bisogni esigenze e anche i limiti.
Per le mamme che si destreggiano tra il lavoro, la casa e la cura dei figli, ritagliarsi del tempo per se stesse sembra spesso una missione impossibile. In realtà esiste un modo per rendere tutto più semplice da gestire: il decluttering, termine inglese che in italiano si traduce letteralmente come togliere di mezzo qualcosa d’ingombrante e che si può riassumere con la locuzione nostrana mettere in ordine.
Il decluttering facilita la vita delle mamme in molti modi: ci sono meno cose da pulire, è più facile trovarle, e c’è più spazio a disposizione per i bambini. Per cominciare è fondamentale predisporre un piano di azione, un progetto preciso senza il quale il tentativo di riordinare si tradurrebbe in disordine ulteriore. Una volta che si è deciso, è importantissimo non aspettare il momento giusto. Ogni momento è perfetto per iniziare l’opera. Indugiare è solo una perdita di tempo che ha come unico risultato l’aumento del disordine.
Il decluttering potrebbe essere emotivamente e fisicamente estenuante: per questo non è utile porsi obiettivi poco realistici, ma è opportuno sceglierne di fattibili e compatibili con i propri compiti di madre che sono già abbastanza gravosi.
Gli ambienti disordinati spesso sono causa di stress per la maggior parte delle persone, in particolare per le mamme indaffarate che si dividono tra casa e lavoro. In una ricerca recente si è evidenziato, a riprova di questo, che il livello di cortisolo (l’ormone dello stress) è inferiore nelle donne che descrivono le loro case come ordinate, rispetto a quelle che, invece, le descrivono come disordinate. Il decluttering può, quindi, avere implicazioni emotive e psicologiche di rilievo sul benessere delle madri.
Il disordine distrae perché rende difficile trovare ciò di cui si ha bisogno. Eliminarlo, mettendo in ordine, ha come conseguenza una migliore concentrazione. Migliorare lo spazio vitale vale anche come iniezione di autostima: ci si sente orgogliosi di un ambiente ordinato e ci si vergogna, infatti, del disordine.
Una casa disordinata non è necessariamente sporca. E’ difficile, però, pulire bene intorno a una catasta di oggetti. Il decluttering, in questo senso, aiuta a ridurre gli accumuli di polvere, muffe e funghi che possono scatenare asma e allergie.
Il decluttering è una forma di liberazione fisica. Il disordine, infatti, è solitamente il frutto di un vastissimo assortimento di emozioni e ricordi che può trasformarsi in una vera e propria stampella psicologica. Una volta superata la diffidenza iniziale, ci si rende conto di non avere bisogno di un oggetto per ricordare una persona o un evento; ci si accorge semplicemente che le emozioni, i ricordi e sentimenti ci sono ancora anche se ci si è sbarazzati del superfluo.
A partire dal momento in cui una donna scopre di aspettare un bambino, viene sopraffatta da un turbinio di emozioni: insicurezza, paura e la sensazione di non essere pronta a diventare madre. Il “mom shaming”, letteralmente far vergognare una mamma, fa leva su queste emozioni con conseguenze drammatiche sulla psiche delle madri che ne sono bersaglio.
Ogni mamma subisce critiche per le decisioni assunte riguardo all’educazione e alla cura dei propri figli. I dati statistici ne sono la prova. La maggior parte delle madri (61%) afferma, infatti, di essere stata criticata per le proprie scelte genitoriali da un familiare: l’altro genitore (36%), i suoceri (31%) o la propria madre o padre (37%).
La disciplina è l’oggetto più frequente delle critiche, segnalato dal 70% delle madri. Altri temi comuni, oggetto di commento negativo, sono la dieta/nutrizione (52%), il sonno (46%), l’allattamento al seno rispetto al biberon (39%), la sicurezza (20%) e la cura in generale dei bambini (16%). Le madri reagiscono in modi diversi alla critica: alcune cominciano a documentarsi per capire se stanno veramente sbagliando, altre si conformano alle critiche modificando il loro modo di essere genitori.
La maggioranza delle madri afferma fortunatamente che le critiche le hanno fatte sentire più sicure delle loro scelte genitoriali e il 56% dichiara di aver smesso di criticare altre madri dopo esserne stata oggetto.
Il mom shaming diventa particolarmente fastidioso quando un’altra mamma offre consigli genitoriali non richiesti, adottando posizioni rigide, incrollabili su una propria opinione e facendo vergognare altre mamme che la pensano e agiscono diversamente. È quella che viene definita la guerra delle mamme, fenomeno ancora più odioso quando viene amplificato dagli strumenti di comunicazione digitale. Non è raro che una mamma per aver fatto una qualsiasi scelta non condivisa dalle altre, venga messa alla gogna su un gruppo whatsapp o di qualche altro social media.
Ciò che rende il mom shaming unico e diverso da altre forme di bullismo è che prende di mira qualcosa di intimamente legato al senso del dovere di una donna. Nella società di oggi, l’asticella della genitorialità tende a essere molto più alta per le madri che per i padri. Le madri sono spesso oggetto di critica, mentre i padri sono trattati con molta più indulgenza per le stesse decisioni genitoriali.
Accade per esempio quando una madre che non lavora ne giudica un’altra impegnata professionalmente. Una sorta di ripicca insensata che può far molto male e a cui si deve reagire non lasciandosi condizionare, ma informandosi sulla validità delle proprie scelte e continuando a svolgere i propri compiti quotidiani con la consapevolezza che i figli e i genitori non sono tutti uguali.
Non esistono regole e modus operandi predefiniti. Se si hanno dubbi è bene consigliarsi da esperti e ignorare le chiacchiere e i commenti delle mamme bulle.
La nascita di un figlio è uno dei momenti più importanti della vita di una donna che inevitabilmente comporta un cambiamento radicale delle proprie abitudini e che spesso, anzi la maggior parte delle volte, conduce anche ad una rivalutazione di numerosi rapporti d’amicizia.
Dunque, una domanda sorge spontanea: perché dopo la maternità è complicato e difficile mantenere stabile e vivo un rapporto con amiche che non hanno figli? La risposta è semplice: spesso è difficile comprendere come i ritmi di vita di una madre possano cambiare, soprattutto per chi di figli non ne ha.
Una piccola premessa è d’obbligo: ogni donna deve sentirsi libera di scegliere se avere o meno dei figli, ma allo stesso modo, tutte le donne devono comprendere come le esigenze di vita cambiano quando una nuova vita viene al mondo.
In base al tipo di comportamento assunto, è possibile classificare le amiche senza figli in diverse tipologie di amiche senza figli
L’amica comprensiva: colei che, essendo empatica, comprende qualsiasi situazione, capisce la tua posizione e nonostante le tue assenze e gli appuntamenti mancati è sempre presente e pronta a darti un supporto e ad offrirti una mano a cui aggrapparti nei momenti di necessità…
La giudicante: ecco, forse lei è quel tipo di amica da cui prendere le distanze. Si tratta di quell’amica che ha deciso di improntare la propria vita su altro, prendendo la difficile decisione di non volere figli ma che, nonostante ciò, fa sentire te come quella sbagliata e inadatta: non perdendo occasione per “bacchettarti”, dispensando ottimi (secondo lei) consigli su come gestire la tua vita di mamma.
La nostalgica: ultima ma non per importanza, c’è colei che ti travolgerà nei momenti pre-concepimento. Proverà ad allontanarti dalla realtà per ricordarti dei momenti divertenti vissuti insieme prima del parto. Ricordandoti la forza che hai dentro, ma soprattutto che sei ancora una donna viva e in grado di divertirti ad una serata tra donne senza la paura di voler tornare a casa dopo aver varcato la porta di casa. Insomma, lei sarà il tuo salvavita nei momenti di stress e tristezza.
La nascita di un figlio cambia il mondo di una madre, ma ogni cambiamento è fonte di bellezza e felicità e in questo caso anche una fonte incondizionata di amore. Ma questo significa che una madre non avrà mai tempo per stare con delle amiche o per fare nuove conoscenze? La risposta è no.
La solitudine fa male, anzi, fare delle nuove amicizie o provare a mantenere vive quelle storiche è un’ottima idea, soprattutto perché una donna oltre ad essere una madre è anche un’amica, amante, moglie e tanto altro. Allontaniamo le amicizie tossiche, di amiche che ci hanno sempre giudicate e mai comprese, guardate con gli occhi dell’invidia e mai di ammirazione e gratitudine e diamo il benvenuto a donne che ci sostengono, nonostante non siano ancora madri.
I genitori di una volta erano convinti che attraverso le sculacciate fosse possibile educare i propri figli, insegnando loro che quel dato comportamento era errato. Non serve andare indietro di generazioni: quanti di noi ricorderanno di aver ricevuto qualche ceffone o pacca sul sedere, sentendosi dire frasi del tipo “lo faccio per il tuo bene”.
Ancora oggi è diffusa l’idea secondo cui le punizioni corporali, anche una semplice sculacciata ogni tanto, non solo non faccia male ma sarebbe addirittura educativa.
La ricerca si è interrogata a lungo circa la funzionalità educativa della sculacciata, ed è giunta a una conclusione: sculacciare non solo non offre un insegnamento, ma può creare danni seri a carico del cervello del bambino. Ciò avviene perché la sostanza grigia del cervello controlla sia la parte relativa al linguaggio e al ragionamento, sia quella relativa al controllo muscolare.
Questo metodo educativo, oltre a creare danni seri, suscita nel bambino un comportamento aggressivo, che può condizionare anche il suo rendimento scolastico.
Gli studiosi, inoltre, hanno osservato che i bambini che vengono sottoposti a punizioni corporali tendono ad avere una visione distorta del mondo: essi, infatti, si convincono che tutta la realtà che li circonda sia cattiva e ostile e di conseguenza attuano un comportamento di autodifesa, che li porta a essere maldisposti e aggressivi.
Questa teoria è stata illustrata da alcuni psicologi americani (Elizabeth T. Gershoff, Jerome M. Sattler e Daniel Ansari), i quali in una pubblicazione del 2018 hanno dichiarato che su dodicimila bambini quelli che a cinque anni hanno subito punizioni corporali, negli anni successivi (in particolare tra i sei e gli otto anni) hanno sviluppato comportamenti aggressivi.
Questo meccanismo nasce perché il bambino, vedendo l’adulto utilizzare questi modi nei momenti di rabbia, si convince che l’unico modo possibile per esprimere i propri sentimenti (in particolar modo, quelli negativi) sia alzare le mani.
Durante la crescita, i bambini vengono influenzati notevolmente dai comportamenti delle persone che li circondano e, data la loro tenera età, non sono in grado di comprendere che utilizzare le botte come metodo educativo sia errato e controproducente.
Nel momento in cui i bambini sono costretti a subire questo tipo di educazione, oltre a sentire dolore fisico, vengono pervasi da un senso di paura che non consentirà loro di comprendere i motivi di quel gesto, ossia della sculacciata; questo dimostra quanto, oltre a essere sbagliato, sia inutile sculacciare i propri figli.
Nella maggior parte dei casi, i genitori che scelgono di seguire un metodo educativo basato sulle sculacciate hanno avuto a loro volta un’educazione basata sulle punizioni corporali e, non ammettendo questo collegamento, daranno vita a un circolo vizioso dannoso non solo per i propri figli, ma anche per le future generazioni.
Fonti:
D’Ambrosio, Psicologia delle punizioni fisiche. I danni delle relazioni educative aggressive, Milano 2004
Miller, Il risveglio di Eva: come superare la cecità emotiva, ed. Cortina, Milano 2002
Il senso di colpa è un sentimento particolarmente diffuso, specie tra le neo-mamme. Gli specialisti giungono ad attribuirgli la definizione di “mostro” pronto a distruggere il nostro equilibrio, e sorge nel momento in cui la donna si auto-convince di non fare abbastanza.
Questo sentimento può nascere anche per cose apparentemente banali: ad esempio, molte mamme si sentono in colpa quando devono affidare i propri figli a baby-sitter o nonni, oppure anche il pensiero di aver ripreso l’attività lavorativa, suscita in molte donne la sensazione di trascurare gli impegni da mamma.
Sono una brava mamma? Sto svolgendo i miei compiti al meglio? Sto dando tutto ciò che posso per rendere mio figlio felice? Queste sono solo alcune delle domande che si pongono le mamme afflitte dai sensi di colpa. I medici hanno scritto centinaia di libri sullo stato d’animo che pervade le neo-mamme e come uscirne, ciononostante non esiste una soluzione standard adatta a tutte.
Negli ultimi anni c’è la tendenza a lasciarsi condizionare dal modello di donna perfetta che viene promosso dai social network: questo non fa altro che genere ancora più insicurezze nelle neo-mamme, dando vita a quel senso di inadeguatezza che genera il senso di colpa.
L’arrivo di un neonato in casa porterà grandi novità nella vita di tutti, ma a dover gestire il cambiamento maggiore, sarà sicuramente il fratello/la sorella maggiore.
Ritrovarsi a dividere le attenzioni del genitore, avere un nuovo bambino in casa che tenderà ad attirare, almeno per i primi i tempi, tutta l’attenzione su di sé, potrà apparire al primogenito come un grande sconvolgimento difficile da comprendere e accettare.
Gelosie, dispetti, irritabilità sono normalissimi soprattutto nel primo periodo ma sicuramente sono molto difficili da gestire per i genitori che spesso non sanno come comportarsi per rendere questo periodo di transizione il più sereno possibile per la propria famiglia.
Per aiutare il proprio bambino ad accettare nel modo migliore l’arrivo di un fratellino o di una sorellina possono essere utilizzati piccoli accorgimenti.
Innanzitutto sarà utile coinvolgere il bambino nella cura del nuovo arrivato, farlo sentire parte della nuova avventura e dargli qualche piccola responsabilità.
Nonostante il neonato richieda sicuramente costanti e importanti attenzioni, è importante mettere al primo posto qualche volta il fratello maggiore facendolo sentire sempre importante e focalizzando solo su di lui l’attenzione quando necessario.
L’eterna rivalità che coinvolge nuora e suocera è diventata nel corso degli anni oggetto di studi scientifici oltre che fonte d’ispirazione per molti romanzi e film.
Tuttavia generalizzare su un argomento così dibattuto non è propriamente corretto, perché esistono casi in cui tra suocera e nuora si instaura un legame di stima e complicità.
Quando, però, questo non avviene e il rapporto tra le due parti si incrina, la stabilità matrimoniale ne risente; non a caso, sono sempre di più le coppie che si separano a causa della mamma del marito. Chi, invece, non arriva al punto di separarsi ammette che il ruolo della suocera genera una forte insoddisfazione coniugale.
Perché è così complicato il rapporto suocera-nuora? La risposta sembrerà sorprendente, ma le vere ragioni di questo rapporto conflittuale derivano principalmente dalla nostra storia evolutiva.
Una delle motivazioni principali che crea terreno fertile per eventuali conflitti tra suocera e nuora risiede nelle preferenze con cui scegliamo il partner, le quali nella maggior parte dei casi non coincidono con quelle dei genitori. Questa diversità di vedute può generare un’antipatia iniziale, che non sempre si riesce a trasformare in un sentimento positivo.
L’infertilità è una condizione che colpisce molte coppie desiderose di avere un figlio proprio. Una problematica che riguarda in egual misura sia l’uomo che la donna, ostacolando non solo loro volontà di diventare genitori, ma creando e portando alla luce molti problemi correlati e causando reali conseguenze psicologiche.
La diagnosi di infertilità, infatti, è un trauma che colpisce ognuno in maniera differente e richiede un approccio individualizzato, per questo motivo è nata una scienza di psicologia dell’infertilità, che dovrebbe supportare la coppia in questa situazione difficile.
Il counselling è una pratica molto usata in caso di infertilità, come supporto alle famiglie e consiste nella consulenza da parte di un esperto di questo delicato tema.
Secondo l’European Society of Human Reproduction and Embriology il professionista può attuare due differenti tipi di counselling per aiutare la coppia in difficoltà.
La prima tipologia di counselling è di sostegno e serve appunto per supportare le famiglie che si trovano a dover affrontare il problema dell’infertilità e per aiutarle a gestire lo stress derivante da questa spiacevole situazione. Lo stress è naturale in un contesto del genere e deriva sia dall’impossibilità di diventare genitori in modo naturale, che dalla pressione familiare e sociale che si può facilmente creare, oppure dal fatto che i trattamenti medici adottati potrebbero non funzionare.
L’educazione emotiva è un argomento molto dibattuto negli ultimi anni, quando si parla non solo di adolescenti, ma piuttosto di bambini piccoli e neonati. Sembra, infatti, ci fosse un aspetto dell’educazione infantile che spesso veniva ignorato e non coltivato, che riguardava appunto le emozioni, ma che finalmente è stato approfondito dagli esperti di pedagogia e che può essere applicato anche dai genitori.
Si parla proprio di analfabetismo emotivo, che negli anni ha colpito giovani e giovanissimi, a causa di mancanze educative nella tenera età. Infatti, come troviamo l’analfabetismo tradizionalmente conosciuto, che deriva dal mancato apprendimento della lingua parlata e scritta, quello emotivo coinvolge il non saper gestire le proprie emozioni, un comportamento che va insegnato e quindi appreso sin da neonati.
Appena nati i bambini non comprendono da soli le loro emozioni, come il pianto o la sofferenza, poiché non capiscono le motivazioni che si celano dietro a queste reazioni. Quindi è molto importante che i genitori si impegnino, senza particolari sforzi, a tentare di spiegare al bambino, sin da quando è molto piccolo, cosa causa le emozioni provate, come ad esempio il fastidio derivante dal pannolino bagnato o dallo spuntare dei primi denti. In questo modo, semplice e che non necessita di competenze particolari da parte dei genitori, il bambino crescerà con la consapevolezza delle proprie emozioni, che quindi saranno anche più semplici da metabolizzare ed affrontare.
Le emozioni sono innate nell’uomo, per cui sussistono sin dalla nascita, e anzi, persino nei momenti prima, durante i quali i bambini sono ancora nella pancia della mamma. Proprio per questo motivo, non esiste un’età giusta per educare i propri bambini alle emozioni, perché l’intelligenza emotiva può essere sviluppata fino da quando il bambino non è ancora nato, per poi continuare ovviamente nei primi giorni di vita.
Una fase fondamentale è poi quando il bambino inizia ad avere due anni, ossia nel momento in cui comincia a comprendere le parole e le spiegazioni dei genitori, ma anche a contrapporsi a questi ultimi. L’educazione emotiva è poi importante che sia portata avanti di pari passo sia in casa, per cui da genitori e nonni, ma anche nel contesto scolastico da maestri ed insegnanti.
Crescendo poi, ovviamente, le emozioni provate… [SEGUE]
Il rapporto madre-figlia è un rapporto in continua evoluzione, cambia dall’infanzia all’adolescenza e ancora in età adulta e allo stesso tempo è un pilastro fondamentale in ogni esperienza di vita che condiziona innumerevoli esperienze.
Anche durante la gravidanza, già di per sé periodo di grandi cambiamenti fisici e psicologici, il rapporto madre-figlia subisce un’ulteriore evoluzione.
La prospettiva di doversi occupare di un neonato, che dipende in tutto e per tutto dai genitori, può far paura e può mettere spesso in crisi le neo-mamme.
Mentre si cerca di costruire la propria identità di madre, ogni donna tende a fare riferimento all’esperienza diretta appoggiandosi alla propria figura materna: è così che durante la gravidanza il rapporto madre-figlia cambia ancora e si evolve con l’obiettivo di aiutare la gestante a costruire la propria identità e a superare nel migliore dei modi un periodo di forte cambiamento.
Avere paura ed essere insicure durante la gravidanza è del tutto normale, per questo spesso si cerca supporto e consiglio nella figura materna nel percorso che porta la gestante ad essere non più figlia ma a sua volta mamma.
L’equilibrio che si instaura in questo particolare momento… [SEGUE]
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